venerdì 30 dicembre 2016



Come già detto più volte tra queste pagine, il 2016 ha regalato un bel po' di bei film. C'è chi parla di Dr. Strange o Rogue One, ma ringraziando il cielo la scelta è vasta e il film di cui andrò a parlare non è di certo stato molto chiacchierato, nonostante una campagna virale sul web capace di attirare l'attenzione. Sto parlando di Morgan, film che vede il debutto alla regia di Luke Scott, figlio d'arte del già conosciuto e pluripremiato Ridley. Il film, che si basa sulla sceneggiatura di Seth W. Owen, è di genere fantascientifico e vede come protagoniste Kate Mara nel ruolo dell'agente Lee Weathers e Anya Taylor-Joy in quello di Morgan.

Pubblicizzato nei social media con l'hashtag #WhatIsMorgan, il tema centrale di questa storia è proprio questo: capire cosa è Morgan. L'interrogativo, tuttalpiù, se lo pone lo spettatore mentre l'intero cast del film sa già la risposta. Lo sanno l'equipe di scienziati che vivono con Morgan in una casa di campagna (adiacente ad un bunker dov'è rinchiuso il soggetto che porta il titolo del film) e lo sa con certezza l'agente Weathers, che è stata inviata dai suoi superiori per comprendere se il progetto Morgan è un successo o un totale fallimento.

Con questi pochi elementi, viene costruito un soggetto a dir poco interessante che, sì potrebbe risultare abbastanza scarno complice anche la poca durata della pellicola (un'ora e trenta), ma che racchiude un senso profondo, una visione del genere umano che - manco a farlo apposta - rimanda un po' ai temi utilizzati dal papà del regista, Ridley Scott, nella sua pellicola Alien e approfonditi poi in Prometheus. Che sia un caso o meno, poco importa, fatto sta che il figlio Luke ha imparato molto dal padre. La regia è impeccabile, la narrazione procede spedita e non annoia. Un plauso va anche per le (poche) scene d'azione presente nel film, le quali evitano di "strafare" rimanendo su dei binari più semplicisti. Il finale, poi, non è affatto telefonato ma qui evito di fare spoiler. Morgan è in fin dei conti un film corto, senza tante pretese, ma che si lascia guardare con delizia e il messaggio lanciato alla conclusione del film (riassumibile in il genere umano è affascinante tanto quanto orribile e manipolatore) dà quel tocco in più. Se forse sto riempiendo di elogi questo film e, una volta visto, pensate che io abbia esagerato, beh... io ammiro Morgan per la capacità di risultare semplice con una struttura narrativa profonda e un'identità tutta sua.

Come ho detto, per me Morgan è a mani basse uno dei film più belli di questo 2016, uno di quei progetti che - una volta tanto - si è saputo vendere grazie ad un utilizzo ponderato dei social media. Ovviamente, il discorso si pone al contrario per quanto riguarda la nostra penisola, il quale film non ha avuto la benché minima considerazione e nei cinema è passato per un singolo giorno. Vabbè. Un'uscita in home video, comunque, è prevista quindi vi consiglio di recuperarla appena possibile (in realtà in digitale sarebbe anche disponibile, ma ancora, noi italiani abbiamo appena cominciato a saper usare i social network, tempo al tempo).

Infine, chiudo con questa "recensione" un po' corta il 2016 dell'Oblivion Bar.
Ho postato decisamente poco, rispetto al 2015, ma è stato un anno frenetico che mi ha permesso comunque, tra alti e bassi, di poter crescere "artisticamente". Sto parlando del mio desiderio di poter scrivere racconti e, se tutto va bene, avrei alcuni progetti per l'anno in entrata che spero di riuscire a mandare in porto. Salvo ripensamenti, sperando non ce ne siano. Quindi, che dire, prendiamoci una pausa tutti insieme, avrò molto da scrivere, leggere, guardare e giocare, ma per il momento la mente è indirizzata al concludere questo anno in fretta. Ai pochi lettori (che spero ce ne siano, lol) auguro un buon fine anno. Ci leggiamo l'anno prossimo!


lunedì 26 dicembre 2016



L'edizione natalizia di Colazione da Bruno dà il via alla trasformazione definitiva di questa "rubrica" che dal recensire esclusivamente film del fu Mattei Bruno passerà a revisionare tutti i b-movie visionati col mio ormai compagno di visioni orribili, Marcello. I film visionati questo Natale sono stati tre, rispettivamente nel seguente ordine: 7 dell'Infinito contro i Mostri Spaziali, House (a.k.a. Hausu) e A Christmas Horror Story. Solitamente, passo a recensire i film nell'ordine di visione ma stavolta farò un'eccezione, andando per gradi di apprezzamento. Iniziamo, quindi, con...

7 dell'Infinito contro i Mostri Spaziali
Possono mai un'ora e venticinque sembrare otto ore? Ho visto questo film e mi sono sentito invecchiare man mano che s'andava avanti. Oddio, che parolone, non va avanti, non va da nessuna parte. Alla fine non ho capito se i mostri spaziali sono i lucertoloni (draghi di comodo ripresi combattere in una riproduzione su scala), le aragoste giganti con le faccie più simpatiche di sempre o i vampiri coi denti usciti dalle buste di patatine... che poi, ma le fanno ancora le patatine con la sorpresa? Non ne vedo in giro da parecchio, mi ricordo che da piccolino ce n'erano un botto, tipo quelle che portavano come sorpresa degli alieni di nonsochematerialeappiccicoso che mia madre odiava tanto. Se sto divagando con altri argomenti è perché è quello che ho fatto durante tutto il film. Se volete la recensione, compratevi Il dizionario dei film brutti a fumetti, Davide La Rosa è riuscito a renderlo più interessante di quello che è, perché davvero è una martellata nei coglioni. Che poi, la genialata è che il film è stato ripreso in parte a colori e in parte su pellicola in bianco e nero non so perché, così che gli sceneggiatori (delle scimmie ammaestrate, senza offesa per tale categoria) hanno pensato di ribadire a più riprese che degli alieni (forse i vampiri, boh non l'ho capito!) hanno installato un dispositivo che altera le tonalità cromatiche nell'atmosfera. Bella la scena in cui un tipo sulla Terra in due minuti scopre come hanno fatto quegli alieni costruendo un dispositivo simile che va ad alterare il filtro della pellicola della scena in cui appare l'attrice a cui sta facendo l'inutile spiegone. Non sto facendo uno sfottò, davvero in quella scena il tipo utilizza l'arma contro la tizia e l'unica "tonalità cromatica dell'atmosfera" che si va a modificare è la singola inquadratura della donna. Tutto sommato, ha l'idea carina di mostrare come sulla Terra non si usi più "fare l'amore come un tempo": i coniugi, infatti, si collegano le sinapsi in dei macchinari. Interessante, davvero, ricorda Demolition Man però comunque i tizi si toccano e si baciano, quindi che cazzo ne so. Come se non bastasse, il film è intervallato da scene tagliate ma sono così tante che viene il dubbio su quanto sia la durata effettiva del film! Poi abbiamo scoperto che nel DVD c'è proprio l'edizione italiana con scene totalmente nuove (prese poi chissà dove) e un montaggio un po' fatto a cazzo di cane perché troppo frenetico però decisamente meno noioso. A quel punto stavamo pensando di praticare l'Harakiri, però avevamo altri due film da vedere, quindi abbiamo desistito. Prossimamente, recensiremo quella versione. Andiamo avanti.

A Christmas Horror Story
Questo, a dire il vero, è stato l'ultimo film da noi visionato, ma come ho detto, si va per indice di gradimento. Questo film è stato il nostro film natalizio (La spada nella roccia e Una poltrona per due ci ha stufato) e decisamente non si può catalogare come film brutto, perché brutto brutto non è. Realizzato bene, con un tema principale veramente figo, inoltre vede la partecipazione speciale di William Shatner! Di cosa parla, insomma? Questo film ha il poster più figo di sempre, Santa Claus contro il Krampus (un demone natalizio) ma questi due sono soltanto due storie separate, perché questa pellicola racchiude ben quattro storie differenti strutturate non ad episodi ma scorre via via col film. Abbiamo una coppia di colore il cui figlio viene posseduto da un troll natalizio, un trio di adolescenti rimasti chiusi nella loro scuola mentre indagano su degli omicidi avvenuti lo scorso Natale, una famiglia che fugge dal Krampus e Babbo Natale alle prese con i suoi folletti tramutati in zombie! Bello, vero? Infatti, la parte di Santa Claus è la più figa di tutte, il resto del film ha alcune trovate interessanti ma non decolla più di tanto. William Shatner è utilizzato piuttosto male (forse se gli avessero dato un copione con più battute), le varie storie sono originali e accattivanti, tranne per la parte dei ragazzi nella scuola che utilizza un tema trito e ritrito. Il trucco del Krampus e la caratterizzazione di Santa Claus sono quelle che mantengono in vita l'interesse, il film di base però rischierebbe di finire nel dimenticatoio se non fosse per quel finale che cambia le carte in tavola. Si sarebbe potuto fare decisamente meglio, ma questo film è stata una bella rivelazione. Consigliato!

Ora, il piatto forte!

House / Hausu
House è il film di debutto di Nobuhiko Obayashi, regista sperimentale giapponese che realizza il capolavoro di una vita. La trama non è necessaria raccontarla, perché quasi fa di contorno e non è neanche interessante: sette ragazze vanno in una casa infestata dove appare un gatto e un fantasma. In realtà, c'è tutta una storia più articolata di così ma chi se ne frega, perché il film va visto per come è stato realizzato. Scene assurde, psichedelico su alcuni punti e trash in altri, lascia nello spettatore delle emozioni contrastanti. All'inizio sembra un film brutto, realizzato male e con delle scene che sfiorano - no, scusate - toccano il ridicolo... ma la cosa bella è che se pur arriva a toccare il fondo, risulta interessante per vedere cos'altro s'è inventato il regista! In venti minuti, il film è già follia pura, in un'ora e trenta il vostro cervello sarà fottuto completamente. Difficile davvero recensire questa pellicola, racchiude veramente troppi elementi, perché non è un film banale, tocca tematiche interessanti e nella narrazione ci sono frammenti di qualcosa di veramente più grosso di quel che sembra, il tutto contornato da una personalità forte, prorompente e diversa. Diversa in ogni campo, ma principalmente diversa per il panorama del cinema giapponese, strizzando l'occhio al cinema americano ma riuscendo a sua volta a diventare qualcosa di più. Tim Burton, quando parla di liberare la creatività deve chiudere la bocca perché è un signor nessuno, Obayashi è in confronto a lui un Dio e questo film ne è la prova vivente. L'intero film riesce a sembrare una continua sequenza onirica e addirittura in certe parti riesce a dare l'impressione di assistere a scene in dormiveglia - presente quando vi svegliate con la TV accesa e non capite esattamente cosa state guardando? Ecco, quella sensazione lì, solo che voi siete svegli e coscienti! Paragono questo film a due pellicole: la prima, è La Casa 2 per l'ambientazione, la storia e la follia da cazzeggio (è stato realizzato comunque prima). La seconda è Eraserhead per il semplice motivo che le emozioni che ho provato sono state molto simili, sebbene indirizzate verso direzioni differenti. Nel film di David Lynch, rimasi inquietato mentre con Obayashi ho riso tutto il tempo, però mi hanno dato entrambe la sensazione di vivere in un sogno, appunto. Poi, vorrei veramente aggiungere altro, ma credo che questo film vada visto per intero e poi giudicato. Scene memorabili: troppe. Voglio solo ricordarlo così:


Ricordate di tenere d'occhio quello scheletro, durante il film.

E dopo questa splendida recensione (scritta e non riletta, quindi non corretta!), Colazione da Bruno ritornerà l'anno prossimo con altre recensioni di film di merda! Un buon 2017 e... va beh, su vi regalo qualche altra perla da Hausu. Ciao!





domenica 11 dicembre 2016



Era il 2014 quando in questo blog rencesii i primi V/H/S, serie di film antologici che racchiudevano dei cortometraggi realizzati da registi emergenti. Ebbene, è il 2016 e ritorno qui a parlare di quel film, non nel complesso ma per il corto che, guarda caso, mi aveva affascinato di più: Amateur Night, che narrava di quattro amici alle prese con un addio al celibato che portate in camera delle escort, una di esse si rivela essere un demone succubus. SiREN è proprio Amateur Night, insomma e vede alla regia non David Bruckner (che comunque resta alla sceneggiatura) ma da un'altra conoscenza della serie V/H/S, Gregg Bishop, che nel terzo film aveva realizzato il corto Dante the Great, il mockumentary sul mago col mantello indemoniato, per intenderci. Insomma, con quest'accoppiata il film resta il giusto mix di quello che erano stati i due film, ma di questo ne parlerò tra le conclusioni!

SiREN, così come nel corto Amateur Night, ha come protagonisti quattro amici, tra cui Jonah che è prossimo al matrimonio, alle prese con un addio al celibato riuscito un po' male. Abbindolato da un tipo losco, il fratello di Jonah spinge tutti ad addentrarsi in una sorta di pub "mobile" (nel senso che non ha mai dimora fissa) e lì fanno la conoscenza di Mr. Nyx e del suo eccentrico club pseudo-satanico. Jonah, inoltre, fa la conoscenza di Lily, nome dato a questa ragazza - riconosicuta da Nyx e i suoi seguaci come "la Lilith" - che con le sue doti canore (come una sirena, appunto) riesce ad ammaliarlo al punto da farsi liberare. Peccato che Nyx l'avesse imprigionata per motivazioni più che giuste. Parte quindi così una caccia al demone succubus (perché quello resta, anche se lo spacciano come una sirena) mentre Jonah tenta la fuga: Lily, infatti, sembra averlo scelto come partner a vita.

Il film è un mix di sensazioni. Si presenta inizialmente come un b-movie, con scene demenziali, come per accattivarsi un pubblico di nicchia, poi però la fotografia e le riprese cambiano e diventa un film abbastanza mediocre, che più dell'essere accattivante non va oltre. L'attrice scelta per interpretare "la Lilith" è sempre Hannah Fierman, che sembra ritagliata apposta per quel ruolo... e per quel trucco! Resta quindi il fascino dell'estetica con cui è stata caratterizzata la demone, ma resta inspiegabile la connotazione da sirena affibbiatole. Per carità, la figura della sirena nella mitologia greca è anche facilmente ricollocabile alla figura del succubus, ma l'aspetto demoniaco e il canto ammaliante sono due qualità che si accostano proprio male, a mio parere, ma vabbè.


In definitiva.
Ritorniamo un attimo al concetto lasciato a metà in introduzione: con l'accoppiata Bruckner/Bishop si arriva al mix esatto di sensazioni che le pellicole presentate da loro in V/H/S e V/H/S: Viral hanno lasciato. Per Amateur Night mi salì il profondo interesse sia per la caratterizzazione del demone che per il mio amore non tanto velato proprio per il succubus, mentre in Dante the Great non ci ho visto assolutamente nulla oltre quell'aria mistica che, per quanto accattivante, restasse fine a sé stessa. Con questo mix, si raggiunge quindi un giudizio negativo: come già detto, il film parte come un b-movie e poi si discosta totalmente, per poi tornare su una vena più tragicomica per raggiungere lo stesso finale del corto da cui è stato estrapolato questo film. L'intero contesto, a livello di trama e introduzione del demone, è dovuto in quanto parliamo di un lungometraggio e non di un corto e, sostanzialmente, può starci ma le modalità di narrazione sono la vera falla di questo film. Una nota negativa anche al cast e alla caratterizzazione dei personaggi. Quest'ultima è a dir poco macchiettistica e anche se voluta, risulta più ridicola che divertente, mentre per la scelta di attori direi che nessuno spicca per doti recitative se non, appunto, l'attrice antagonista e questa soltanto per la sua "presenza scenica" in vesti di demone, insomma andiamo proprio bene. Di contro, ho visto numerose recensioni positive riguardo questo film, a dimostrazione che magari i gusti stavolta potrebbero far davvero la differenza; apprezzo l'horror come fan e ben venga l'ironia, ma ci sono casi e casi e, per me, qui non regge poi molto. Consigliato? Andateci cauti. Potrebbe risultarvi accattivante soltanto la caratterizzazione di Lilith e, secondo me, è l'unica motivazione valida per guardare questo film.



Pet



Nella mia continua ricerca di film horror, devo ammettere che raramente trovo qualcosa di veramente valido. Pet non si distingue certo da un film mediocre per qualità o originalità, ma è stata una piacevole sorpresa, la dimostrazione che - di tanto in tanto - qualche idea buona riesce a venir fuori. Il film, uscito nelle sale americane ad inizio dicembre e già rilasciato in versione digitale, vede alla regia Carles Torres, già conosciuto per il corto M for Mom presente in ABCs of Death 2.5 sulla sceneggiatura di Jeremy Slater (Fantastic 4 e la serie L'esorcista). Il cast vede la partecipazione di Ksenia Solo e Dominic Monaghan, conosciuto per il ruolo di Merry ne Il signore degli anelli, non di certo un cast di prima scelta ma, se non altro, nel complesso la produzione - a discapito di diversi titoli simil-indipendenti - è abbastanza buona.

A Love Story, è la tagline del film. No, non è un eufemismo, di base Pet è davvero una storia d'amore mascherata come un horror thriller psicologico. Il protagonista di questa storia è Seth, un ragazzo presumibilmente quasi trentenne che lavora in un canile come addetto alla manutenzione. Seth è una persona sola, vive in un appartamento in cui non gli è permesso neanche avere un cane e questo lo rende conscio della sua passività nei confronti della vita: ci sono cose che non può ottenere ed è d'accordo col lasciarsi scivolare tutto via. Questo fin quando non incontra Holly, ragazza che conosceva già ai tempi della scuola e che, in un primo momento ha una semplice cotta, poi diventa una vera e propria ossessione, al punto da spingerlo di creare una gabbia in uno stanzino nello scantinato del canile appositamente per lei. Seth, quindi, rapisce Holly ma la storia, da questo punto in poi, prende una piega inaspettata. Seth ha scoperto qualcosa di Holly e il suo obiettivo è quello di salvarla...

La frase che riassume il vero senso del film è citato nel diario di Holly: "L'amore è solo un etichetta per i nostri obblighi biologici", ma a mio parere lo si può racchiudere anche in una citazione dei Rammstein: "Amore, amore, tutti vogliono solo addomesticarti". Su questi due aspetti, il film contrappone due figure irrimediabilmente romantiche, due facce della stessa medaglia, ovvero due persone sole e incomprese, chi per un motivo chi per un altro. L'amore, tema centrale di questo film, è vissuto in una maniera romanticamente distorta; da un lato c'è chi desidera l'amore nella sua maniera più pura, dall'altro chi ricerca qualcosa che soddisfi i suoi bisogni biologici ritornando ugualmente, in entrambi i casi al desiderio di "addomesticare" e mantenere una posizione di potere in una relazione. Come si fa con i propri cani, insomma. La violenza, in questo caso, è la perfetta ricetta per tramutare una qualsiasi storia d'amore in un horror che non disprezza l'avventurarsi nei meandri della mente umana. Su questi presupposti, però, il film non raggiunge la mediocrità per degli evidenti difetti che vanno dal montaggio alla sceneggiatura. Passaggi da una scena all'altra sì intuitivi e che non appesantiscono la comprensione del film (che io ho trovato molto semplice da comprendere), però accumulati fanno un po' storcere il naso, mentre per quanto riguarda la sceneggiatura boccerei il finale un po' scontato e dei passaggi nella trama che, per causare il colpo di scena, sfocia nell'esagerazione più eclatante. Nulla che non sia coerente col resto del film, per carità, ma con qualche accortezza credo che Pet avrebbe potuto superare la mediocrità.

In definitiva.
Come detto introduzione, sono alla perenne ricerca di film horror che possano soddisfare il mio palato da appassionato di genere e devo dire che Pet è riuscito ad essere interessante al punto giusto, decisamente sopra la media di molte porcate che escono negli ultimi tempi. Se poi valutiamo il tutto rendendoci conto che il film è del 2016, tanto di cappello. Poi, oddio, Pet non si avvicina molto al genere horror se non per la violenza e la tematica Sindrome di Stoccolma + visione distorta e malata dell'amore, direi che come genere si avvicina molto più al thriller, ma tant'è. Ripeto, comunque, che per me resta un film che, sebbene mi abbia colpito positivamente, resta nella mediocrità per quegli evidenti difetti citati poc'anzi. Non bocciato perché per tematica e qualità resta una spanna sopra rispetto a molte altre produzioni. Consigliato sì, ma non per chi si aspetti il filmone.


venerdì 2 dicembre 2016



Quando parliamo di serie TV, non sono mai il più adatto a farlo.
L'avrò ribadito più di cento volte in questo blog, non sono tipo da serie TV - ne seguo alcune e raramente mi lascio trascinare in una visione per semplice curiosità. Questa volta è capitato con Crazyhead, una serie horror, chiaramente tendente alla commedia di nazionalità inglese. Insomma, per il sottoscritto si è presentata come una serie dai giusti prerequisiti, niente che mi potesse far gridare al capolavoro assoluto come accade in ogni puntata di Ash vs. Evil Dead (lì raggiungiamo livelli inarrivabili) però, ho pensato: serie inglese, da sei episodi, si può fare. In poche parole, mi sono lasciato trascinare, totalmente ignaro di cosa andasse infine a trattare.

Crazyhead, in sostanza, parla di due ragazze un po' sopra le righe: Amy e Raquel sono due ragazze che faticano ad integrarsi con le altre persone, Raquel in chiave più marcata, a causa di un dono particolare: sono in grado di vedere i demoni. Raquel, che rispetto ad Amy non riesce affatto a legare con le persone, una volta scoperto che la ragazza ha il suo stesso dono, inizia a frequentarla e, assieme a Jake (ragazzo a dir poco odioso innamorato di Amy) danno la caccia ai demoni. Il tutto, contornato dal classico cattivone demone che vuole portare un esercito sulla Terra e qualche "demone" (figurale e non) del passato travagliato di Raquel.

La serie si apre quindi con un esorcismo poco ortodosso, che va dalla consultazione del rito su internet a far la pipì sulla vittima, tanto per chiarire sin dal principio quali sono i toni che andranno ad accompagnarci per ben sei episodi. E devo dire la verità, convince parecchio. L'umorismo inglese, sempre irriverente e sopra le righe, è qualcosa che non si sa perché ma fa sempre effetto, tanto da riuscire a rendere carina e guardabile una serie che si muove in maniera un po' scontata e prevedibile. Esatto, perché se proprio dobbiamo dirla tutta, a parte la sigla, non ha nulla di particolare. Niente di nuovo, niente di mai visto. Lo zero assoluto della novità. Eppure, la comicità riesce a far sorridere. Ma qui abbassiamo un po' i toni, perché sebbene ci riesca non alza affatto la qualità dello show. Le attrici, a parer mio, sono sì brave ma mancano di qualcosa di caratteristico. La scelta di utilizzare dei volti differenti dai classici stereotipi "ci sta", non pensiamo alle classiche ragazze dai capelli sempre al proprio posto e super-truccate, Amy e Raquel escono fuori da ogni canone di bellezza stereotipata, sia per aspetto che per caratterizzazione, tuttavia nonostante ciò e la bravura indiscussa delle due, manca sempre quel tocco in più. Amy, interpretata da Cara Theobold, non enfatizza a dovere il suo personaggio, per tutto il tempo ha sempre la stessa medesima espressione con gli occhi spalancati. Susan Wokoma, alias Raquel, è già più calata nella parte ma ha zero carisma. Parlando di gusti personali, il suo ruolo è sì divertente, ma la sua presenza abbastanza irritante e "antipatica" a pelle. Lo stesso discorso si applica a Lewis Reeves (Jake) mentre per Arinze Kene (Tyler, il fratello di Raquel) il discorso è inesistente perché svolge un ruolo molto marginale. Nulla, nel cast, è degno di nota. Dei personaggi che interpretano degli archetipi ma che più di recitare due battute non sanno far trasparire emozioni o particolarità. Non è qualcosa che incide pesantemente sull'intera qualità della serie, però gli sottrae sicuramente molti punti.

In definitiva.
Non ho intenzione di bocciare completamente Crazyhead: resta una serie indiscutibilmente carina e divertente, adatta a spendere 40 minuti se proprio non si ha nulla da fare. Il ché non è poi tanto malaccio. Comprendo che, per il genere horror comedy, è sicuramente una bella sfida visto che al momento se la contende con due capolavori come Scream Queens e Ash vs. Evil Dead, quindi è un peccato che sia gettata nel mucchio. Ritengo che, difetti a parte (che potrebbero benissimo essere gettati nel discorso della soggettività) sia una serie non da buttare, sebbene - ancora - ritengo che di potenziale per farne una serie più che divertente ce ne sia ma è sfruttato male e l'idea di base non è neanche tanto nuova. Vedetelo se proprio non avete come passare il tempo.

martedì 29 novembre 2016



Quando uscì il quarto capitolo di Millennium, io avevo appena concluso la trilogia "originale" di Stieg Larsson e, nonostante il mio grande amore verso quei personaggi, ho deciso di rimandare la lettura di un anno. Come sicuramente è risaputo, Stieg Larsson è morto prima ancora di conoscere il successo delle sue opere letterarie e, alla luce del suo desiderio di scrivere ben 10 libri sulle vicende di Lisbeth e Mikael nonché delle sue 200 pagine già elaborate per un quarto capitolo, gli editori non ne hanno voluto sapere di lasciar perdere un capolavoro letterario di quella taratura che ha ispirato una serie infinita di trasposizioni cinematografiche e a fumetti, ecco che ben 11 anni dopo l'uscita de La regina dei castelli di carta, il quarto capitolo viene affidato a David Lagercrantz, giornalista e scrittore, ovviamente non basandosi sugli appunti di Larsson a causa dell'opposizione dei familiari sullo sfruttamento dei suoi diritti, ma presentando un soggetto totalmente inedito. Quello che non uccide, quindi, diventa il quarto capitolo della fortunata saga di Millennium. Il peso dell'eredità è stato quindi pesante e se ne è stato all'altezza o meno, lo andremo a scoprire assieme.

Innanzitutto, la trama di questo nuovo capitolo si presenta abbastanza differente rispetto a quanto siamo stati abituati da Larsson che, almeno nelle sue prime opere, si è voluto dedicare maggiormente all'economia svedese e ai casi di violenza sulle donne mentre Lagercrantz decide di approfondire il lato "virtuale" del personaggio di Lisbeth, mettendo radici appunto su spionaggio industriale e, in linea parallela, la violenza domestica. Lo scenario si apre in maniera semplice: un noto sviluppatore informatico, Frans Balder, che ha ideato un sofisticatissimo programma di intelligenza artificiale, viene ucciso misteriosamente, l'unico testimone è il suo figlio autistico, August. Nel frattempo, Mikael Blomkvist è in difficoltà: la rivista Millennium gli sta scivolando via dalle mani e oramai, vecchio e sorpassato, ha perso il tocco; Lisbeth Salander, invece, riesce a intrufolarsi nel sistema informatico dell'NSA creando non poco scompiglio. Questi eventi, nella buona tradizione di Millennium, si uniscono facilmente come tessere di un puzzle più complesso e intrecciato e vede come comprimari molte vecchie conoscenze dei capitoli precedenti (SPOILER) e vede la prima apparizione di un personaggio più volte nominato, ossia Camilla la gemella di Lisbeth!.

Il tutto, come se ci fosse il bisogno di precisarlo, non è Stieg Larsson.
Il lavoro di scrittura è palesemente differente e, per quanto lo scrittore a tratti cerchi se non di imitarlo, almeno omaggiarlo, si sente proprio che son due penne diverse a scriverlo. Ovviamente, direste voi. La scrittura è da un lato molto scorrevole e dall'altro, di contro, poco curata nei dettagli, alcune volte sembra addirittura approssimativa, soprattutto nella descrizione dei personaggi. Personaggi che, ahimè, non hanno il benché minimo appeal che avevano in precedenza. Non voglio assolutamente farne un dramma, è ovvio che Larsson conosceva meglio i suoi personaggi e Lagercrantz ha cercato di dar loro gli stessi connotati. Riuscendoci sì, non senza però spezzare la loro anima. L'anima, un'altra cosa che si è persa nella stesura del romanzo. Larsson riusciva ad inserire anche tre sottotrame, all'interno della storia e ognuna di esse erano appassionanti e riuscivano a tenere sulle spine, cosa che Lagercrantz non è riuscito a compiere. Eppure, le sue sottotrame si collegavano alla storia principale. Forse sarò stato anche io ad essermi perso dei passaggi, ma ho trovato alcuni ragionamenti adottati molto approssimativi e i collegamenti ad essi molto lasciati al caso, senza un briciolo di collegamenti logici e una psicologia pressappoco inesistente. Vorrei spendere qualche parola positiva alla trama, che tutto sommato risulta interessante anche se un po' banale e tirata avanti a fatica, ma se non altro riesce ad avere quei momenti di tensione. Ma la narrazione, comunque, ha parecchi momenti bassi. Lagercrantz fa continui passaggi da un personaggio ad altro, alcune volte anche facendo salti temporali con il semplice scopo di mostrarci un punto di vista differente e altre, invece, per bloccare la tensione sul più bello salvo poi riprenderlo in seguito e non è del tutto una tecnica mal riuscita, a tratti funziona e in alcuni punti l'ho trovato anche simpatico. Peccato però che se ne abusi così tanto che questa scelta diventi quasi meccanica, robotica, risultando soltanto ripetitiva. Infine, ci sarebbero alcuni punti sulla trama e sui personaggi su cui vorrei soffermarmi ma se non avete ancora letto il libro, saltate direttamente alle conclusioni.

[INIZIO SPOILER]
Innanzitutto, ho trovato diversi buchi nella narrazione tanto quanto sono le approssimazioni. Il finale, soprattutto, mi ha lasciato completamente spiazzato. Parti come "Lisbeth fece visita a Roger e lo spaventò, poi andò al suo appartamento" sono soltanto gli apici, ma in realtà ce ne sono un'infinità, come l'apparizione della sorella di Lisbeth avvenuta repentinamente e presentata da Holger Palmgren in maniera del tutto casuale, soltanto perchè Mikael ha avvertito una strana sensazione in sua presenza? Oppure, Ed the Ned che si ritrova a Stoccolma senza che ci venga introdotto quel passaggio fondamentale che, anziché essere approfondito (appunto, come introduzione) ci viene spiegato in maniera sommaria e potrei ancora andare avanti. Tutto sommato, l'idea di approfondire l'origine del nickname di Lisbeth, Wasp, è stata anche carina anche se troppo una strizzata d'occhio ai nerd... però, sul serio. Una sorella così indispettita da volersi inimicare la gemella sfruttando la sua fissazione per i fumetti Marvel? Andiamo, non ha neanche senso e non è in linea col personaggio costruito dallo stesso Lagercrantz, la spiegazione del "odiava così tanto Lisbeth da interessarsi a cosa le piaceva e poi distruggergliela" non regge neanche poi così tanto. Che poi, soffermiamoci sul personaggio di Camilla. È vero che molti fan della trilogia si son sempre chiesti chi fosse Camilla, quale gioco avrebbe giocato in futuro, perché il suo personaggio era lì e sicuramente Larsson l'avrebbe tirata fuori, prima o poi, ed è anche doveroso ammettere che introdurla come nemesi di Lisbeth ci può anche stare. Non un'idea geniale o innovativa, ma ci può stare. Ritengo anche che sia stata una scelta coraggiosa quanto azzardata, decidere di ripescarla in quel modo, e se fosse stata giocata differentemente sarebbe stato interessante, ma secondo me Lagercrantz ha osato troppo e quel suo colpo di genio si è bruciato in un istante. Non solo per come è stata introdotta (lo spiegone di Palmgren era totalmente inadatto, in quel contesto) ma anche come figura. Camilla è appunto il personaggio su cui tutti coloro che hanno letto la trilogia Millennium ha fantasticato, buttarla in mezzo al romanzo in questa maniera così repentina e veloce, ha soltanto spezzato la magia. Certo, ha tentato di farla restare sul misterioso, non è stata sconfitta, ma oramai ha detto già chi sia Camilla e che cosa faccia. Dov'è la magia? Dov'è quell'anima di Stieg Larsson che ci aveva ammaliato? Si sapeva, sarebbe rimasta nella tomba, ma avere tra le mani questa eredità significava parecchio, posso comprenderlo un errore di percorso, ma...
[FINE SPOLIER]

In conclusione.
Mi sentirei di bocciare completamente questo quarto capitolo. O meglio, "quarto". Purtroppo non sapremo mai cosa avesse intenzione di farne Larsson con Lisbeth, Mikael, Erika e Millennium, Quello che non uccide è ciò che si presenta in partenza: una trovata commerciale. Passi l'effetto nostalgia, i personaggi sono troppo approssimativi e nonostante gli sforzi di Lagercrantz, non hanno lo stesso spessore e, ad onor del vero, leggere Lisbeth Salander etichettata come punk fa soltanto incazzare. Preso come romanzo a sé stante, se ne salva ugualmente poco. Troppo approssimativo su determinati punti e non c'è psicologia. Non c'è assolutamente nulla, l'autore affronta, come detto in partenza, anche la violenza domestica ma, se ci fosse stato Larsson, l'avremmo sentito l'odio e lo schifo verso un padre che prende a calci il proprio figlio. Qui no. Non c'è niente.

Non è il quarto capitolo di Millennium.
Potreste leggerlo per togliervi lo sfizio, magari vi può piacere.
Ma, ovviamente, non è Larsson.

venerdì 4 novembre 2016


Il bar del paese era frequentato da anni dalla solita gente. Per lo più uomini dai 45 anni a salire, persino qualche persona anziana, qualche uomo rimasto vedovo o qualcuno che semplicemente staccava dalla lunga giornata di lavoro per godersi una birra in compagnia, magari guardando insieme una partita di calcio alla TV. Era il bar di Antonio, l’unico luogo di ritrovo rimasto su quel paesino in collina. Chiunque entrasse da quella porta era riconoscibile. Aiden, però, non era solito frequentarlo. Aveva 25 anni e frequentare un bar pieno di gente col doppio della sua età non gli andava molto a genio. Innanzitutto perché non riusciva a legare con la loro mentalità bigotta, poi non amava neanche il calcio ergo non avrebbe neanche trovato un argomento in comune. Aveva frequentato un istituto d’arte, tempo addietro, e l’arte era ciò che amava; oltre a dipingere, si dilettava a realizzare sculture con ogni materiale a sua disposizione, ma per quest’ultima non ne trovava mai il tempo. Aiden fece ritorno al paesino a 22 anni, abbandonando l’Accademia d’Arte dopo che il padre fu colto da un infarto che gli rese impossibile la vita, andando ad abitare con lui nella sua piccola e umile casa su tra le colline. Suo padre era come lui, un artista, non di grande fama ma nell’ambiente era abbastanza conosciuto al punto da potersi permettere di costruire casa su suolo privato, isolato dal mondo. Era invero un uomo solitario, forse un po’ egoista anche se con una profondità d’animo non indifferente, qualità che fece innamorare la donna con cui ebbe quel figlio che avrebbe poi seguito le sue orme. Lei fu portata via dal cancro quando Aiden aveva 13 anni. Suo padre, scosso dalla perdita, si abbandonò nell’alcol. Aiden, sebbene suo padre non gli faceva mancare mai nulla, lo odiò per un po’ a causa del suo autolesionismo ma quando arrivò quell’infarto non potette tirarsi indietro, era sempre suo padre. Lo stesso uomo che, nonostante tutto, aveva fatto di tutto per lui, come vendere ogni sua opera per far sì che suo figlio potesse studiare e prendere la sua strada. Una scelta nobile ma fine a sé stessa, visti i risvolti, finendo col vedersi costretto a prendersi cura di lui dovendo rinunciare alla sua vita e ai suoi amici, giù in città. Al suo intero futuro, forse. Aiden, un aspirante artista, un ragazzo da una profonda sensibilità, si vide costretto ad abbandonare i suoi sogni e di lavorare per poter mantenere le cure del padre e le spese della casa.

Non era un mistero, per la gente del paese, che Aiden, “l’artista” come usavano chiamarlo in tono sbeffeggiativo, fosse un ragazzo poco sveglio, inadatto al lavoro. Aiden non sapeva fare niente, aveva solo le sue doti artistiche, ma lì erano sprecate e, per quanto lui volesse tornare in città, il padre non voleva abbandonare la sua dimora, fatta costruire con il sudore versato in gioventù. Suo figlio, anche se adirato, rispettava questa scelta. Allora sacrificò tutto per lui, tanto ormai per lui tutto smise di avere importanza. Trovò lavoro in una ditta di distribuzione di materiale promozionale: volantinaggio, in poche parole, che gli forniva uno stipendio abbastanza agevole per poter mantenere le spese di cura del padre, la sua pensione copriva il resto, lasciando pochi spiccioli alle spese futili. La vita tra padre e figlio era monotona, si parlavano appena oramai e Aiden oramai era stanco. Il paese non aveva nulla da offrirgli, i suoi coetanei erano fuggiti e quelli rimasti era gente già sposata, cresciuta con la mentalità che lui tanto ripudiava quindi neanche lontanamente si sarebbe permesso di frequentarli. Gli amici fatti in città avevano detto che sarebbero rimasti, ma oramai frequentavano l’ambiente artistico, un disgraziato che si prende cura di suo padre in una casa sperduta in montagna non era più loro interesse. Buffo come la gente si dimentichi degli altri, ma c’è anche da dire che Aiden non faceva mai nulla per tenersi strette le persone, nonostante il carisma derivante dal suo lato artistico, non riusciva a stringere legami affettivi, perciò restò solo.

Nel bar di Antonio, quella sera, Aiden provò a farci un salto dopo il lavoro. Aveva bisogno di staccare, di provare a vedere se poteva in qualche modo distrarsi legando anche superficialmente con quella gente… ma non riusciva. Parlavano di calcio tutto il tempo, lui non aveva la benché minima idea di come il Napoli dovesse schierare i suoi giocatori e neanche gli interessava. I primi 45 minuti li passò in silenzio, fissando la figlia di Antonio il proprietario del bar, che era l’unica sua coetanea rimasta single in quel paesino. Giulia era una bella ragazza ma con una pessima reputazione in paese a causa delle sue abitudini sessuali un po’ troppo immorali per la mentalità di quel paese. Suo padre la “proteggeva dagli uomini”, anche se anche lui stesso provava vergogna per lei e, dal canto suo, Giulia sapeva cosa faceva e non aveva bisogno di protezione. Tuttavia, aveva deciso che sua figlia, la peccatrice, non avrebbe fatto altro che lavorare al bar senza rivolgere parola ai clienti. Aiden la fissava. Non la giudicava per ciò che era, forse lui era anche peggio, nella sua breve esperienza in città frequentando cerchie di amicizie e locali, si era lasciato andare e aveva sperimentato diverse cose. Per lui, il sesso non era un problema, anzi, ma quella vita solitaria gli aveva fatto male, si rese conto che non provava altro che desiderio fisico per quella ragazza, allontanandolo da quella sua profonda interiorità che tanto si vantava di avere. Per questo si limitava a fissarla. La notte si toccava pensando a lei, salvo poi rinnegare il desiderio ad atto concluso. Si chiedeva del perché lo facesse, ma la risposta era chiara. Quella solitudine, quella sensazione di alienazione lo stava distruggendo. La solitudine si mischiava al desiderio carnale e le due cose, dentro di sé, andavano fortemente in contrasto. Quando finì il primo tempo della partita, Aiden smise di guardare Giulia, abbassando lo sguardo mentre attorno a lui c’era gente che ordinava da bere, discuteva delle azioni della partita, usciva fuori a fumare. I discorsi che facevano neanche gli interessavano, però ascoltò inevitabilmente l’uomo che gli si sedette vicino. Il panettiere del paese, per lo specifico. L’uomo parlava ad alta voce dicendo come, per far vincere il Napoli, avrebbero dovuto lanciare una sorta di incantesimo o qualcosa del genere. Quel dialetto stretto non lo aveva mai capito, ma il concetto era chiaro così come era chiaro che il barista, Antonio, gli rispose di recarsi dalla “vecchia strega”, una anziana signora che di tanto in tanto si vedeva in giro per il paese e che aveva fatto spostare la sua casetta in mezzo ai boschi per restare vicina alla natura e praticare la magia, suscitando l’ilarità e gli sfottò dei compaesani. Aiden, colto da una inspiegabile curiosità, chiese se appunto si trattasse della vecchia in questione e i due uomini, ridendo, glielo confermarono aggiungendo che avrebbe dovuto recarsi da lei, magari avrebbe trovato un po’ di spirito e smetterla di comportarsi come uno snob. Il panettiere aggiunse anche dell’altro, un’offesa personale riguardante suo padre riferendosi a lui come “l’artista” nello stesso modo offensivo con cui la gente faceva con lui, fortunatamente non ci badò anche se l’alcol gli aveva preso la testa abbastanza da renderlo più sincero con sé stesso, facendogli provare vergogna e frustrazione per la situazione in cui viveva. Aiden finì la sua birra d’un sorso, pagò e fece per andarsene non prima, però, d’aver scambiato un ultimo sguardo con Giulia. Richiuse la porta dietro di sé tornando in strada, mentre tutti si radunarono nuovamente davanti la TV per veder cominciato il secondo tempo.

Il sole si alzò e Aiden era già in piedi. L’orario di lavoro era dalle 6 alle 19 e quel giorno, come gli tutti gli altri, avrebbe dovuto spostarsi in un altro paesino e fare chilometri e chilometri a piedi e il solo pensiero lo affaticava, ma quando passò nella camera del padre per salutarlo e lasciargli le medicine che avrebbe dovuto prendere, tirò un respiro e si preparò ad affrontare la giornata. Si recò quindi alla sede, recuperò il “materiale promozionale” e, presi gli ordini in incarico, cominciò il suo lungo giro che si sarebbe fermato soltanto per un’ora, per il tempo della pausa pranzo. Pausa pranzo che, però, arrivò quando lui era in strada, adiacenti ai boschi. Quando incrociò uno svincolo che portava ad una piccola stradina, si ricordò della vecchia di cui si parlava il giorno prima. La “strega”, che dicevano avesse dei poteri magici. Spinto dalla pura curiosità, svoltò per la stradina e si fermò davanti la sua dimora. Una casa fatiscente che non si sarebbe neanche potuto dire se avesse mai visto giorni migliori. Trovò la vecchina di lato alla casa che raccoglieva ramoscelli, qualcosa di veramente strano ma ancora più strano fu che la vecchia lo salutò, dicendo che lo aspettava da tempo. Disse qualcosa su come finalmente la Dea avesse deciso di portarlo in questa direzione. Lo invitò a prendere da mangiare ma Aiden rifiutò, lei insistette e lui voltò le spalle. La vecchia, per fermarlo, si allontanò dalla porta di ingresso e tentò uno scatto in avanti ma scivolò dallo scalino e cadde in terra. A quel punto, il ragazzo, per pura educazione tornò sui suoi passi e l’aiutò a rialzarsi e nel farlo, la vecchia continuava con i suoi deliri. Gli disse che la Dea le aveva parlato dicendo che lo aveva toccato, che quella sera stessa sarebbe venuto da lui. Aiden ignorò le sue parole e la congedò. La vecchina rispose come se sapesse con certezza che lo avrebbe risentito ma Aiden non ci badò, per lui erano soltanto deliri di una vecchia, chissà perché poi si era recato lì. Lasciò il bosco, mangiò il suo pranzo a sacco e continuò il suo lavoro fino alle 19, tornando a casa in tempo per la cena non prima, però, aver accudito nelle piccole faccende il padre. Dopo cena, prese il computer, fece il login su Facebook e tentò di fare conversazione con alcuni suoi dei vecchi amici, ma non fecero altro che parlare dei loro progetti e provò solo nostalgia. Così come provò nostalgia nel vedere che si sarebbero organizzate mostre e concerti a cui avrebbe voluto partecipare, ma oramai anche se ce l’avesse fatta con i soldi, avrebbe dovuto affrontare viaggi, stanchezza e molto probabilmente si sarebbe ritrovato solo. Gli passò anche la voglia di guardare un film alla TV, lo sconforto gli prese al punto che cominciò a rigirare per casa nervosamente. Decise quindi di riprendere la sua attrezzatura artistica e riprendere a dipingere. Non sapeva bene cosa, ma avrebbe voluto farlo. La temperatura fuori era serena, non c’era umidità e non tirava un fil di vento, quindi decise che avrebbe anche potuto dipingere all’esterno con le sole luci del vialetto a illuminargli la tela. Tela che fissò per qualche istante, tentando di trovare una ispirazione. Ripensò alle parole della donna anziana, del fatto che l’aspettasse, della Dea. Così, lasciandosi guidare dall’istinto, cominciò a disegnare alla destra del foglio una figura femminile con indosso un lungo vestito seduta ad un tavolo. Aveva i capelli raccolti e uno sguardo amorevole, gli ispirava serenità. Decise che i suoi capelli sarebbero diventati biondi e il vestito bianco, sarebbe stata di carnagione chiara e un effetto di luce avrebbe avvolto la sua figura. Notò però che l’immagine aveva soltanto preso la parte destra allorché cominciò a pensare a cosa altro aggiungere allo scenario ma facilmente la sua mente cominciò a fantasticare su quella figura amorevole, su quella Dea. La immaginava dolce, sensibile, capace di farlo sentire felice anche solo con un sorriso. Fu un pensiero però che ripudiò alla svelta, come se stesse fuggendo via da certe sensazioni, era quasi sul punto di strappare via la tela ma non lo fece. In un modo del tutto istintivo, disegnò alla sinistra della “Dea” una immagine speculare, un’altra figura femminile nella stessa posa di quella precedente ma decisamente l’opposta. Disegnò Giulia, la ragazza del bar, la ragazza oggetto del suo desiderio più nascosto. Un’altra sensazione ripudiata, qualcosa che non voleva assolutamente sentire. Stavolta la voglia di strappare il disegno era ancora più forte, ma decise che concettualmente era un bel disegno, contrapporre del fuoco, attorno alla figura di Giulia e della luce bianca avvolgere la Dea creava un bell’effetto nella sua mente. Le due immagini speculari guardavano verso di lui, una con sguardo amorevole l’altro malizioso, entrambe erano sedute su di uno sgabello, il tavolo era chiaramente un bancone di legno da bar. Non dormì, quella notte. Finì il dipinto quando ormai spuntò il sole, sarebbe dovuto andare a lavoro con una totale stanchezza e lo fece. Portò il dipinto sul pianerottolo all’esterno della casa e riprese la sua routine giornaliera, rischiando più volte di addormentarsi al volante, quando prese l’auto per recarsi in un paesino a qualche chilometro dal suo. Prima di tornare a casa, passò a prendere le medicine per il padre, fece un po’ di spesa e tornò a casa a mangiare, anche se non ne aveva voglia. Non lavò i piatti, si mise subito a dormire, fortunatamente era sabato e di domenica avrebbe potuto dormire anche di più. Ma così non fu. Un gran fracasso lo svegliò al mattino, suo padre aveva avuto l’ennesimo malore. Non fu un infarto, fortunatamente, ma aveva preso una brutta caduta. Aiden lo portò in ospedale, dove gli dissero che avrebbe necessitato di almeno due giorni di riposo sotto sorveglianza, viste le condizioni del suo cuore. Aiden fu colto dall’ennesimo senso di frustrazione. Quelle responsabilità che non voleva avere, quelle decisioni che non avrebbe potuto prendere da solo, lo assillavano. Avrebbe voluto fuggire via, scappare da quella situazione. Decise che suo padre sarebbe potuto restare da solo in un letto d’ospedale, tanto avrebbe avuto chi se ne prendesse cura. Mise in moto l’auto e decise di andare via, tornare a casa forse, non sapeva esattamente dove volesse andare, stava solo scappando da lì. Giunto più o meno a metà strada, si ritrovò di nuovo nei pressi del bosco dove abitava la vecchia e cominciò a rallentare, passando davanti al sentiero per osservare la casetta da lontano. Vide la donna anziana seduta sulla veranda, non distingueva bene la figura ma chiaro era che fosse lei così come fu chiaro che gli fece un cenno con la mano come per salutarlo. Aiden accelerò e tornò a casa, perso tra i suoi pensieri, caricò il dipinto che aveva realizzato la notte scorsa e tornò dalla vecchia, stavolta parcheggiando l’auto nella stradina. La donna non si meravigliò della sua venuta, d’altronde se l’aspettava che sarebbe tornato. Aiden, senza neanche salutarla, chiese chi fosse la Dea di cui parlava e lei gli rispose che la Dea è la notte e il giorno, la Dea è colei che regna su ogni cosa. Gli spiegò come essa scegliesse pochi eletti per essere mariti o mogli e che lui, in qualche modo, era stato scelto. Gli chiese, infine, in che modo essa si fosse manifestata e Aiden tirò fuori il dipinto. La vecchia lo osservò con uno sguardo deluso, dicendo sottovoce “quindi è questo che vuoi”, portandolo con sé sulla veranda. Disse che la Dea forse avesse un progetto speciale, augurando a sé stessa e alla Dea che ne potesse valere la pena, congedando infine il ragazzo dandogli appuntamento tra due giorni. Aiden non le fece alcuna domanda, fece passare quei due giorni e, dopo aver riaccompagnato il padre a casa dall’ospedale, tornò da lei che gli consegnò una specie di fagotto che avvolgeva foglie secche e legnetti. La vecchia le proibì di aprirlo, gli disse di portarlo in un luogo sicuro e aspettare le prime luci dell’alba, che la Dea potesse accontentare la sua richiesta. Ovviamente, Aiden non sapeva minimamente di cosa stesse parlando e le chiese di essere più chiara e la vecchia acconsentì. Gli rivelò che la Dea si era manifestata a lui mostrandogli la sua dualità, fuoco e aria, corpo e spirito. Il fagotto che gli aveva dato sarebbe stato il luogo dove si sarebbe risvegliato come forma spirituale, separandolo dalla carne, rendendo le due parti libere l’uno dall’altra. Si raccomandò ulteriormente di metterlo al sicuro e aspettare l’alba cosa che Aiden fece. Lo poggiò nel capanno degli attrezzi adiacente alla sua casa mentre lui si recò nella sua stanza a riposare. Il giorno dopo si risvegliò nudo, avvolto da una piccola coperta, foglie e legnetti.

Aiden uscì dal capanno, dove vide un essere uguale in tutto e per tutto a sé stesso che gli porse dei vestiti per poi recarsi verso l’auto, come faceva egli stesso ogni giorno. Aiden era confuso, sebbene la vecchia il giorno prima gli aveva chiaramente spiegato che sarebbe cosa sarebbe accaduto. Si chiese se non fosse un fantasma, quindi la prima cosa che fece fu recarsi in casa dal padre e gli rivolse la parola. Rispose. Non era un fantasma, in più era tangibile, riusciva a toccare gli oggetti. Aiden corse per strada e fece diversi chilometri a piedi verso la casa della vecchia che incrociò intenta ad andare a fare la spesa in paese. Le chiese cosa stesse accadendo, chi fosse e come funzionasse questa magia. La vecchia sorrise, lo invitò ad accompagnarla alla fermata dell’autobus e gli spiegò come non si trattasse di magia, ma di intervento divino. Rivelò che lei non fosse altro che un tramite, di venerare la Dea e di esserle servitrice. Disse al ragazzo che aveva appena avuto modo di assistere ad una rinascita; separando lo spirito dalla carne ora era libero di amare, di creare, senza alcun vincolo terreno, senza alcuna preoccupazione verso il mondo esterno. Disse che il suo corpo lo avrebbe servito, avrebbe fatto tutto ciò che ritenesse opportuno per garantire la felicità dello spirito, ma che fosse ugualmente un individuo a sé, privo di amore, regole e morale. Gli suggerì di tenerlo sott’occhio, di vivere quella situazione non in senso unilaterale, che la Dea gli avesse offerto questo strano dono per un motivo che lei stessa non comprendeva. L’autobus arrivò, le porte si aprirono e la vecchia si accompagnò a fatica al suo interno, rivolgendosi al ragazzo per un’ultima volta ricordandogli che spirito e carne sono ormai separati e, per quanto fossero due entità autonome, l’una è dipendente dalle esigenze dell’altra. Aiden fece un cenno alla vecchia, mentre l’autobus richiuse le sue porte e ripartì. Restò fermo a pensare, realizzò che aveva corso per tutto quel tempo senza mostrare alcun segno di fatica, forse aveva ragione. Quella magia, o atto divino, funzionava realmente. Aiden notò come, al posto di fatica e stanchezza, sentiva soltanto gioia, amore e una serie infinita di emozioni che non riusciva a dargli un nome. Corse così ritornando a casa, colmo di felicità. Mentre il suo corpo svolgeva al posto suo ciò che aveva fatto da 2 anni a questa parte tutti i santi giorni.

Arrivato a casa, prese tela e pennelli, senza farsi sentire dal padre convinto che stesse al lavoro e si recò in un angolo solitario del giardino, lontano dalla visuale delle finestre per cominciare a dipingere. Dipinse tutto il giorno, fu incredulo di quanto fosse ispirato, di come riuscisse a toccare ogni angolo sensibile della sua anima per riuscire a creare opere ai suoi occhi meravigliose. Passò diversi giorni a farlo. Di sera si metteva sul pianerottolo, di giorno cominciò a spostarsi in angoli più remoti, lontano da casa e più vicino alla natura. Non sentiva necessità di mangiare o dormire, in lui c’erano soltanto emozioni, sensazioni accentuate che necessitava di esternare. In poche settimane, realizzò una enorme quantità di dipinti e sculture in legno, che realizzava lontano da casa, in creta e anche con elementi semplici quali carta e legnetti. Molte opere sicuramente non sarebbero state valutate valide, quindi decise di catalogarle e di portarle in città quando ne avrebbe avuto occasione. In quell’arco di tempo in cui dipingeva, poche volte si incontrò con il suo doppio e in ogni occasione lui appariva sempre più stanco e provato, ma lui non ci fece caso e le loro vite proseguivano parallelamente. Il suo corpo ogni giorno si recava al lavoro, comprava le medicine, faceva la spesa, poi passava ore nella sua camera, immobile, fino ad addormentarsi. A prendersi cura del padre restò lui, la sua “forma più pura”, perché così aveva deciso. Quella situazione così assurda sembrava funzionare per tutti, tranne che per il suo corpo che, al contrario di lui, ogni giorno era sempre più provato e ricolmo di tic nervosi e scatti di violenza che avvenivano in solitaria sul posto di lavoro.

Passò addirittura un mese. Aiden raccolse “la sua arte” e prese un bus per la città, prendendo i soldi messi da parte dalla sua forma corporea che nel frattempo si faceva ancora carico di tutte le sue responsabilità, come da accordi presi prima di partire. Arrivò in città, riprese contatti con alcuni suoi professori chiedendo se fosse possibile rivendere i suoi lavori. E questi accettarono, valutarono i suoi lavori positivamente e improvvisamente, quella cerchia di amici che quando lui si trasferì lo abbandonarono, tornarono da lui come se nulla fosse, come se fosse una rockstar. Aiden provava fastidio verso questa cosa così come provò una enorme sensazione di rabbia nei confronti di atteggiamenti falsi e adulatori. In quella forma, ogni sua emozione era accentuata ma ne riusciva a tenere il controllo e a non cedere in scatti d’ira. Affrontò la situazione con garbo, educazione e pacatezza mentre, in una casa sperduta in montagna, la sua controparte si svegliò in un impeto di ira e iniziò ad urlare. Aiden non poteva sapere che ogni qualvolta lui ignorasse un sentimento, il suo corpo ne risentisse. Fu così con la rabbia ma anche con altre emozioni come la tristezza. Aiden, sebbene riuscì a raggiungere quella libertà, si sentiva spesso solo, senza amore. Ma come un artista vive le sue emozioni sfruttandole in maniera creativa, un essere fatto solo di istinti e pressioni psicologiche non può far altro che chiudersi a riccio, in una camera buia, piangendo sonoramente.

Passarono altri due mesi. In quel lasso di tempo riuscì a vendere alcune sue opere, riuscì a dedicarsi alla scultura come a lui piaceva. Ricominciò a frequentare l’ambiente artistico, a conoscere gente nuova e interessante, ma nessuno che stimolasse la sua emotività. Fin quando conobbe Giulia, una stupenda ragazza dai capelli biondi e gli occhi chiari con la quale stabilì un rapporto d’interesse reciproco molto intenso. Cominciarono a frequentarsi, a passare tantissimo tempo insieme. Aiden cominciò a sentirsi felice di nuovo, trovò finalmente ciò che riusciva a donargli quella felicità che tanto ricercava. Riconobbe in Giulia quella Dea del suo dipinto e una sera, riaccompagnandola a casa, era più che intenzionato a dar voce i suoi sentimenti con un bacio. Quando i due si sfiorarono solo con le labbra, però, Aiden fu colto da un malore, una forte fitta al petto, come se gli mancasse il respiro, cosa strana visto che era da tanto tempo che non provava alcun tipo di fastidio fisico. Giulia si preoccupò, ma Aiden riuscì a riprendersi e tornò a casa. Pensò tutta la notte a cosa potesse essere accaduto, ma non trovò risposta, l’unica che trovò era che l’evento era senz’altro collegata a quella sorta di magia. Decise di tornare a casa da suo padre e ritornare dalla vecchia per avere risposte ma prima voleva essere chiaro con Giulia e passò un’intera serata con lei travolto da emozioni contrastanti che non riusciva bene a distinguere, non comprendeva cosa stesse accadendo: lo avrebbe saputo, se avesse avuto un corpo. Sapeva che aveva a che fare col desiderio di avere qualcosa di carnale con la ragazza con cui stava, motivo in più per tornare a casa per ottenere risposte. Il giorno dopo prese l’autobus e una volta giunto in paese, si accorse di avere tutti gli sguardi puntati contro. Alcuni di loro si scambiavano sottovoce parole al veleno. Qualcosa era accaduto.

Tornò a casa e si recò dal padre, non trovò sé stesso in quanto era sicuramente al lavoro. Quando il padre lo vide questi non gli rivolse nemmeno la parola, in qualche modo ce l’aveva con lui. Le uniche parole che gli rivolse riguardavano il suo abbigliamento, che nel frattempo era cambiato totalmente da quando risiedeva in casa col padre. Capì che qualcosa non andava, decise quindi di tornare dalla vecchia, ma non la trovò. Aspettò fino a sera, ma non si fece viva quindi ritornò indietro dove incrociò sé stesso cogliendo l’opportunità di chiedergli spiegazioni. La reazione fu inaspettata, con voce lamentosa lo respinse via, in lacrime, intimandogli di lasciarlo stare, che era stanco di lui e di sentirsi in quel modo. Aiden restò con gli occhi spalancati, come poteva lui sentirsi in quel modo? Non avrebbe dovuto avere emozioni, così gli disse la vecchia. Tentò di prendere l’auto e scendere in paese, ma non aveva le chiavi e decise di arrivarci a piedi. Entrò nel bar di Antonio dove questo gli chiese di andare via, minacciandolo con una scopa. Fu la figlia, Giulia, a “salvarlo” e portarlo fuori da lì. Era chiaro che tra sé stesso e Giulia ci fosse stato qualcosa, e gliene diede conferma quando gli accarezzò le parti basse dicendogli sottovoce che aveva conosciuto in internet un tipo che avrebbe acconsentito a realizzare una certa fantasia, cosa che fece sobbalzare Aiden allontanando la ragazza in malo modo. Giulia restò perplessa, gli chiese se non fosse un altro dei suoi attacchi d’ira immotivati ma Aiden anziché risponderle chiese che fine avesse fatto la vecchia che viveva nella casetta nel bosco. Giulia gli rise in faccia e disse che dopo essere svenuta in piazza, un mese prima, fu portata in ospedale. Aiden chiese se poteva accompagnarlo ma la ragazza si rifiutò categoricamente accusandolo di essere strano. Aiden tornò quindi a casa e si recò in camera sua, incurante del padre ancora sveglio, dove trovò sé stesso nudo procurarsi dei tagli profondi sul petto. Lo fermò, preoccupato di cosa stesse facendo, lo coprì con una coperta e gli chiese le chiavi dell’auto. Le prese e chiuse sé stesso a chiave nella camera da letto ma si trovò davanti il padre che aveva capito ci fosse qualcosa che non andasse. I due ebbero un forte diverbio, con il padre che cominciò ad accusarlo di essere stufo dei suoi atteggiamenti irascibili, perversi e irrispettosi. Chiese cosa stesse accadendo in camera sua ma Aiden si rifiutò di farlo entrare, così che il padre lo scostò di forza e sfondò la porta. Quando trovò suo figlio avvolto in una coperta, pieno di graffi, la sua reazione fu mista: da un lato c’era l’ovvia incredulità, ma nasceva in lui anche una forte preoccupazione verso le condizioni del figlio. Lo shock, ad ogni modo, non gli fu in grado di razionalizzare e il cuore cedette facilmente. Aiden gridò contro sé stesso chiedendogli cosa avesse fatto per aver ridotto loro padre in quel modo, ma la sua rabbia, in lui controllata, esplose in uno scatto violento da parte del suo doppio che si avventò contro di lui, prendendolo a pugni urlandogli come fosse tutta colpa sua e delle sue emozioni. Aiden non provava dolore dai colpi del suo doppio, riuscendo quindi a liberarsi dalla sua presa con facilità, tentò quindi di farlo ragionare dicendo che avrebbero dovuto portare il loro padre in ospedale e che avrebbero parlato dopo. L’altro Aiden si rivestì e insieme caricarono il padre in auto e una volta giunto in ospedale, Aiden lasciò il padre ai medici che lo portarono via in barella, mentre chiese all’altro di restare in auto.

Nell’attesa che gli venissero date informazioni sulle condizioni del padre, Aiden chiese la stanza della vecchia, spacciandosi per il nipote. Anche se non era orario di visite, riuscì comunque a passare in quanto, a detta dell’infermiera, nessuno era venuto a trovarla in un mese e molto probabilmente le mancava poco da vivere. Entrò quindi nella sua camera, dove i lettini adiacenti erano vuoti, c’era solo lei, intubata. Aiden le chiese come si sentisse ma la vecchia ignorò la domanda e lo rimproverò di aver abbandonato le sue responsabilità in quel modo, di aver abbandonato sé stesso. Aiden, stanco dei messaggi criptici della vecchia, le chiese cosa fosse accaduto e la vecchia gli rivelò che nella sua nuova forma, ogni emozione vissuta fosse accentuata ma dal momento in cui essa venisse repressa, sia il fisico a risentirne. Ogni volta che avesse provato rabbia e l’avesse repressa, il suo corpo accumulava tensione, passando dai tic nervosi a dei veri e propri atti di violenza nei confronti degli altri. Gli parlò di come in tre mesi avesse causato alcune risse, di come se le fosse cercate appositamente per sfogare il suo istinto. La vecchia disse infine che lei era a conoscenza solo degli atti di violenza, ma nel paese si parlava di cose disdicevoli che lei neanche sapesse di cosa trattassero, fatto sta che ogni sua singola repressione ha causato una reazione al suo corpo. Era una sua responsabilità, la Dea voleva renderlo libero ma non si è liberi se non si è responsabili e coscienti di sé stesso. Aiden pensò a tutte le volte che aveva provato rabbia verso qualcuno o qualcosa, tutte le volte che avrebbe voluto piangere… emozioni che aveva vissuto ma non a pieno, in quanto mancanza di un corpo. Realizzò che in quel momento odiava sé stesso. Scambiò uno sguardo con la vecchia, non si parlarono. Aiden corse via, uscì dall’ospedale per recarsi all’auto, ma la trovò vuota e con i vetri rotti. In quel momento sperò soltanto che il suo desiderio di non morire si trasferisse alla sua controparte, passò al setaccio l’intera zona e finalmente ritrovò sé stesso. Seduto sul ciglio della strada, in lacrime.

Aiden si sedette accanto a lui, tentò di darsi conforto e per la prima volta notò come il suo corpo si fosse deteriorato dalla stanchezza e dallo stress. Notò che aveva ormai pochi capelli e il suono della sua voce era oramai spezzato, come vuota, senz’anima. Gli disse che tutto ciò che voleva era liberarsi di quelle emozioni, agire e sentirsi libero di essere ciò che era, rimarcando come le sue emozioni, la sua morale, lo avessero finito col distruggere. Aiden ascoltò in silenzio mentre il suo doppio continuò a parlare rivelando che aveva il desiderio di ucciderlo per essere finalmente libero ma che, ancora, le sue emozioni lo bloccassero. Aiden cominciò a provare pietà verso sé stesso e l’altro, in lacrime, cominciò ad elencare tutte le sue azioni compiute dal momento in cui si erano separati. Gli disse della gente picchiata, delle sue scappatelle con Giulia, di altre sue scappatelle con donne più grandi e persino con uomini. Gli disse dei soldi rubati dalla pensione e delle offese rivolte al padre rinfacciandogli di avergli rovinato la vita. Ancora, parlò di come avesse minacciato il suo datore di lavoro per fargli avere più soldi e lavorare poco. E la lista continuava, all’infinito, cose disdicevoli, cattiverie rivolte ad anziani e bambini nel paese, atti vandalici. L’odio di Aiden verso sé stesso cresceva a dismisura. Il suo doppio, che aveva nascosto un pezzo di vetro dell’auto, improvvisamente si tagliò la gola. “Dovresti esserci tu, al mio posto”, disse.

Il corpo si era accasciato a terra e tutt’attorno si formò una larga pozza di sangue. Aiden pensava che di lì a poco sarebbe sparito anche lui, morto assieme alla sua controparte. Ma così non fu, evidentemente la magia non funzionava in quel modo. Passarono diversi minuti, poi decise di lasciare lì il suo corpo e sparire. Le sue emozioni erano sempre accentuate ma non riusciva più a dar loro un nome. Pensò a suo padre, pensò alla Giulia che aveva lasciato in città. Aveva ormai importanza, chi dei due Aiden avesse conosciuto? Camminò tutta la notte, deciso a non curarsi più di quella vita che si stava lasciando alle spalle. Nella sua testa si riversarono mille domande, ma la più rumorosa riguardava quali intenzioni avesse avuto la Dea dal principio, se mai ci fosse stata una Dea. Nel frattempo, un medico uscì alla ricerca di Aiden per dirgli che a suo padre sarebbe rimasta una settimana o due, che le sue condizioni erano diventate inspiegabilmente critiche. Ma non trovò nessuno. Poco dopo, degli infermieri che uscivano dall’ambulanza, notarono un cadavere sul ciglio della strada pochi metri più avanti.

Si fece l’alba, Aiden ritrovò la stradina che conduceva alla casa della vecchia. Tornare a casa non sarebbe servito, quindi entrò nella casetta e riprese il dipinto che aveva consegnato alla vecchia mesi prima. Sperava che trovasse delle risposte ma restò deluso. L’unica cosa che realizzò fu l’incredibile somiglianza tra quella Dea da lui dipinta e la Giulia conosciuta in città. Forse c’era un disegno divino in tutto questo, si chiese. Continuò a guardarsi intorno, mentre nel frattempo la vecchia in ospedale giunse al suo ultimo battito. Aiden trovò un album di famiglia molto vecchio, probabilmente appartenuto ai genitori o ai nonni della presunta strega. Sfogliando le foto, si chiese se a quella sua forma spirituale, distaccata dal corpo, fosse data la possibilità di invecchiare o morire. In tal caso, il pensiero dell’immortalità lo spaventava ma aveva paura anche di togliersi la vita una seconda volta. Continuò a sfogliare l’album, poi notò qualcosa di strano che lo portò a sfogliare di nuovo l’album da capo. Era incredibile la somiglianza da lui riscontrata; le foto erano datate ma i lineamenti erano quelli della vecchia, ne era sicuro. Prese l’ultima foto dall’album, la data segnata era 15/12/1816.


Aiden posò l’album, prese poi una sedia e restò fermo a fissare il suo dipinto.

mercoledì 26 ottobre 2016



È grazie a Batman che ho cominciato a leggere in maniera più assidua i fumetti. Grazie alle sue storie, ho avuto modo di avvicinarmi ai supereroi, all'Universo DC di cui sono tanto appassionato. E di Batman ho letto parecchio. Così tanto che dopo un po', mi ha stufato. Perché credo che con Batman sia stato fatto tutto: è stato un vampiro, una Lanterna Verde, Superman stesso, è stato un Cavaliere della Tavola Rotonda, un viaggiatore spaziale. Ancora, è stato spezzato, è morto, è tornato dalla morte e ha viaggiato nel tempo... insomma. Che cosa non è stato fatto con Batman? Quando ho visto che la DC avrebbe pubblicato Batman: Europa mi si è accesa la curiosità: un Batman fuori non solo dalla sua Gotham ma addirittura oltreoceano! Una speranza di poter leggere qualcosa di differente, di nuovo, scritto nientemeno che da un autore nostrano, Matteo Casali accompagnato dai layout (e dai disegni, per un capitolo) di Giuseppe Camuncoli. Ebbene, la mia speranza di leggere qualcosa di interessante, bello e soprattutto di nuovo non è stata affatto accontentata. Batman: Europa è un fumetto anonimo, che non racconta nulla di nuovo e che ha la sfortuna di avere una grossa somiglianza con Batman: Arkham City.

Ma andiamo per gradi e ricordiamo sempre che i gusti personali non si discutono.
Non parliamo di soggettività, però, su quanto affermato poc'anzi: Europa è praticamente Arkham City, con le dovute e ovvie differenze, ma la sostanza è praticamente quella: Batman e Joker sono affetti da un virus e sono costretti a collaborare per trovare una cura. In Arkham City, era Joker a iniettare il suo sangue nel corpo di Batman costringendolo a cercare una cura per lui mentre qui i due sono stati semplicemente manipolati da un misterioso nemico che, alla fine, si rivelerà essere un volto noto a noi lettori. La storia è abbastanza semplice, Batman e Joker viaggiano per l'Europa alla ricerca di una cura, visitando Berlino, Praga, Parigi e Roma. Alla fine, una volta scoperto l'identità del villain e delle sue motivazioni, sono rimasto come un fesso in quanto, a mio avviso, non ha il benché minimo senso per quel nemico agire in quel determinato modo per dimostrare ciò che voleva dimostrare. A discapito di quello che vuole essere l'opera completa, Europa, preso a sé stante è una storia scialba, povera, che si regge a malapena e che, soprattutto, non racconta nulla di nuovo né tanto meno riesce ad aggiungere un aspetto interessante alla narrazione.

Una narrazione che mi aspettavo ruotasse attorno ad un Batman in terra straniera, in una città che non fosse sua, totalmente spaesato ed indebolito... e invece no. Ogni numero, ambientato in una città differente, è semplicemente una guida turistica e contrappone quanto accade ai due protagonisti/rivali ad un paragone storico riguardo la città in questione. In maniera molto boriosa, aggiungerei. Volendo essere buoni, potrebbe anche risultare un'opera interessante da un punto di vista artistico  in quanto è sicuramente ben curato sia per i disegnatori coinvolti che per l'impaginazione, basti guardare l'impaginazione alla francese nella storia ambientata a Parigi (con dei disegni, che almeno a mio avviso, fanno venire soltanto il mal d'occhio, secondo me le qualità di Latorre sono andate sprecate per quel tipo di layout) ma manca una narrazione solida. In sostanza Batman: Europa è debole, è noioso e ad un lettore casuale può risultare anche pesante in quanto ha la pretenziosità (apparente?) di voler essere un fumetto per "palati fini". Forse io non avrò un palato fine, ma a me ha assolutamente annoiato e i dialoghi, fin troppo articolati per i miei gusti, hanno reso la lettura addirittura pesante.

Insomma, in poche parole, boccio completamente Batman: Europa in quanto lo reputo una guida turistica e non un fumetto e perché, nonostante le basi veramente interessanti, non ha sostanza. L'unico tema "Batmaniano" che affronta è il solito trito e ritrito rapporto tra Batman e Joker e di come uno possa sopravvivere solo grazie all'altro. Emozioni zero, noia tanta. Se volete comprarlo, spero che voi abbiate un palato più fine del mio.

giovedì 20 ottobre 2016


Quanto scritto di seguito sono commenti a caldo dopo aver visionato forse uno dei più bei film che questo 2016 ci ha regalato. E non parlo di film di genere, intendo dire il migliore tra tutti!


Prendo fiato, perché ammetto che è dura restare obiettivi e senza alcun tipo di emozione.
Da dove comincio? Sausage Party è un film di animazione sulla falsariga di un qualsiasi film della Pixar dove troviamo articoli da supermercato -per lo più cibo- parlanti intraprendere un'avventura esilarante e piene di emozioni. Cosa lo differenzia da un Cars o un Toy Story qualunque? Che non è un film per bambini, ovviamente - basti pensare che il protagonista è una salsiccia e il cattivo un irrigatore vaginale. Ah, e che sceneggiatura e produzione sono opera di Seth Rogen ed Evan Goldberg, da sempre una garanzia di qualità per film politicamente scorretti, mai banali e sempre sul pezzo.

C'è poco da riassumere con Sausage Party. Non starò qui a raccontare la solita trama perché credo che sia veramente inutile farlo, essendo un film che si presenta già di per sé come un qualcosa di originale, senza aver bisogno di introduzioni sulla trama. Scopritelo da soli! Parliamo piuttosto di cosa lo rende speciale. Innanzitutto, il cast è eccellente, abbiamo Seth Rogen, Kristen Wiig, Edward Norton, James Franco e Salma Hayek, per dirne alcuni. La storia è esilarante, piena di allusioni sessuali, razzismo, violenza e delle stupende tanto quanto spaventose scene da film horror dove praticamente non avviene assolutamente nulla di strano ma contestualizzate assumono un'ilarità non indifferente. Credo che se la Pixar non realizzasse film per la Disney, sarebbe proprio su questo genere che si muoverebbero. Film animati per adulti, con scene altamente demenziali e goliardiche (che funzionano!!!) e con tematiche tutt'altro che banali.

La tematica, ecco qualcosa di cui approfondire.
Sausage Party è un film che sostanzialmente demolisce la struttura morale della società americana per poi ricostruirla pezzo per pezzo e farci capire perché un semplice panino ha bisogno di credere che ci sia un al di là piuttosto che morte sicura. Nel farlo lancia un messaggio fondamentalmente di "leggerezza" e apertura mentale, di amore se vogliamo. Critica sociale, sì, che non dà ragione a nessuna delle parti, scagliandosi violentemente contro il terrorismo e non solo quello islamico. Non a caso, l'intera storia si svolge alla vigilia del 4 luglio. E la bellezza di tutto ciò è che, con le sue allusioni sessuali, con la rinnovata voglia di vedere i nostri due eroi finalmente far sesso, riesce a lanciare questa critica all'apparenza (se destrutturata) incoerente riuscendo ad intrattenere e, ai più sensibili, riflettere.

In definitiva.
Consiglio di guardare Sausage Party, meglio ancora se in lingua originale per non perdere eventuali doppi sensi che nel doppiaggio italiano spariranno o si riadatteranno male al 90%. Lo reputo un film imperdibile, geniale. Non farò spoiler ma ritengo che abbia la miglior sequenza finale di tutta la storia del cinema. Se non mi credete, guardate per credere. E se non siete d'accordo, siete dei fottuti stupidi.

domenica 16 ottobre 2016


Holy bat-trap, Batman!
Diciamoci la verità, da quando la DC Comics ha ottenuto i pieni diritti della serie TV di Batman del 1966 si è data parecchio da fare. Basti pensare le numerose action figures rilasciate, i cofanetti blue-ray, le repliche della Batmobile, i DLC di Batman: Arkham Knight per non menzionare la serie regolare a fumetti che può persino vantare di un crossover con Green Hornet scritto nientemeno che da Kevin Smith! Per non farci mancare altro, nel mese di ottobre è stato rilasciato un film animato, Batman: Return of the Caped Crusaders che vede il ritorno di Adam West, Burt Ward e Julie Newmar nei ruoli (di doppiaggio, ovviamente) rispettivamente di Batman, Robin e Catwoman in quella che, oltre ad essere una sorta di revival, risulta un vero e proprio omaggio alla famosissima serie se non addirittura all'intera storia editoriale e non del Cavaliere Oscuro! Come? Beh, scopriamolo assieme.

La storia è abbastanza semplice: Batman e Robin sono alle prese con le loro nemesi più famose, ovvero il Joker, Pinguino, Riddler e Catwoman i quali hanno rubato un'arma capace di duplicare tutto ciò che si desidera. Il Dinamico Duo ovviamente riesce a fermarli ma Batman viene drogato da Catwoman e poco a poco subisce una metamorfosi che arriverà a farlo diventare "cattivo". Semplice ed efficace, con numerosi grattacapi risolti in maniera del tutto casuale come la serie TV ci ha abituato (e per la quale ogni appassionato l'ha amata), tante battute tristemente divertenti e, ovviamente, le immancabili botte onomatopeiche! Holy faster pussycat, kill kill!

C'è ben poco da dire su Return of the Caped Crusaders. Non aspettiamoci il film animato serio e cupo bensì un'ora e mezza di demenzialità e nonsenso accompagnato da un doppiaggio a dir poco nostalgico per chi è cresciuto con (o ha conosciuto) le voci di Adam West e Burt Ward e la caratterizzazione iconica dei coloriti personaggi. Mancano giusto i baffi del Joker sotto il trucco ma per il resto è pura emozione. Quelli che non mancano invece sono i riferimenti alla serie (quello più geniale, riproporre le tre attrici che hanno interpretato Catwoman!) compresi i vari "holy..." di Burt Ward/Robin e alcuni nemici apparsi sporadicamente nel corso degli anni. Non sono da meno neanche i riferimenti esterni ad essa, come ho detto in partenza risulta un omaggio anche alla storia di Batman come icona pop, sfruttando l'espediente del Batman malvagio per esplorare il suo passaggio da eroe buonista e frivolo a quella versione cupa e oscura che è diventata nel corso della sua storia editoriale, arrivando persino a citare l'opera più famosa scritta da Frank Miller: Il Ritorno del Cavaliere Oscuro. Non basta? Ci sono riferimenti anche più nascosti, quello che ho più apprezzato (per simpatia, più che altro) è quello del recentissimo The Dark Knight Rises, terzo capitolo della trilogia di Christopher Nolan.

In definitiva.
Avete amato il Batman del 1966 e volete rievocare l'atmosfera demenziale e leggera che si respirava guardandone un episodio? Fa al caso vostro, non delude per nulla le aspettative. Godibile, simpatico e divertente. Ancora più bello è per i fan del Crociato Incappucciato che hanno la possibilità di poter analizzare la mutazione di Batman nel corso degli anni. E se guardandolo vi viene voglia di vederne ancora, la DC ha già annunciato un sequel per il 2017. La storia dovrebbe riguardare uno dei lost episodes della serie TV e vedrà l'introduzione di Harvey Dent, alias Due Facce. E io non vedo l'ora!


PS: sì, c'è anche il Batussi!