lunedì 31 agosto 2015



Il film che andrò a "recensire" quest'oggi mi ha lasciato pareri contrastanti.
Innanzitutto, cominciamo col dire che The Revenant non è il classico film sugli zombie. A dire il vero, non è nemmeno un film di zombie. Come concetto, sembra basarsi sulla figura del Revenant, ovvero una creatura ritornata in vita dopo la morte, simile a un vampiro. Ed è proprio col vampiro che il Revenant in questione assume più similitudini, piuttosto che con lo zombie. Interpretato da David Anders (il Blaine di iZombie!) e Chris Wylde, The Revenant è una sorta di commedia grottesca un po' splatter che parla, sostanzialmente, di un'amicizia. Quella tra i due protagonisti, rispettivamente Bart e Joey.

Bart è un sergente militare che muore durante un conflitto a fuoco in Iraq e che, una volta ritornato in patria ed eseguito il suo funerale 3 settimane dopo, ritorna dal mondo dei morti insudiciato e putrefatto. La sua prima tappa è dal suo migliore amico, che nel frattempo a sua insaputa ha "consolato" la sua ragazza, e una volta fattasi un'idea sommaria su cosa stia accadendo a Bart, questi lo aiuta a reperire del "cibo", ovvero sangue umano, per far sì che non finisca col decomporsi del tutto. Ovviamente, non tutto andrà a buon fine. I due iniziano una sorta di carriera da vigilanti, in quanto Bart decide di non voler aggredire gente innocente ma solo criminali, ma è questione di tempo prima che finiscano nei guai e nel frattempo, dovranno avere a che fare anche con Janet, la ragazza di Bart che ha scoperto il suo segreto grazie a Matty, la sua migliore amica, che non è per niente d'accordo sull'aiutare Bart arrivando a suggerire di tagliargli la testa e ucciderlo definitivamente.

Il film, sommariamente, è abbastanza atipico. Spazia su numerosi generi; principalmente si presenta come una commedia, cadendo parecchio sul demenziale e non mancano elementi drammatici e d'azione spezzando, però, spesso e volentieri il ritmo del film. Il tutto resta godibile, a tratti è divertente e si vede l'impegno del regista che riesce comunque a produrre qualcosa di ben fatto che non risulti un filmetto da quattro soldi, ma l'elemento che più stona è appunto lo spezzarsi del tono, senza una benché minima dissolvenza. In un momento è pura demenzialità e in quell'altro è estremamente serio. Anche il finale, puramente esagerato, arrivato a quel punto del film sembra più buttato a caso ma che ci sta, se restiamo nell'ottica che vuol comunque essere un film grottesco. Un finale che, se pur nelle prime fasi può far storcere il naso, si conclude con un riferimento al Return of the Living Dead di O'Bannon, e tutto questo è molto bello.

Sostanzialmente, reputo The Revenant un film che va visto, anche se ha numerose pecche. Bisogna stare a vedere se sia stata una decisione del regista o un errore, lo spezzarsi dei toni che cambia continuamente la direzione del film. In linea di massima, apprezzo il film per l'originalità, per il riuscire ad aver creato qualcosa di differente, a partire dalla concezione stessa dello zombie/vampiro/risorto. Un film che gli amanti del genere non dovrebbero assolutamente perdersi. A mio avviso, eh.


domenica 30 agosto 2015



Recensione un po' insolita, stavolta.
Insolita perché a discapito delle altre volte, in cui mi son ritrovato a recensire film di nuova uscita o comunque film poco conosciuti, ho deciso di parlare di uno dei miei film horror preferiti: The Blair Witch Project del 1999. Tutto è cominciato quando quest'oggi, mettendo in ordine gli scaffali di casa, mi sono imbattuto in un paio di VHS, ricordi di quando ero piccolo e a casa si compravano solo VHS originali. Tra i vari cartoni-barra-ricordi d'infanzia, mi sono imbattuto appunto in questo film e, stupito di come fosse ancora in ottimo stato mi è salita la voglia di guardarlo. Non tanto per l'effetto nostalgia, si tratta comunque del mio primissimo horror, ma perché ritengo che sia uno di quei film che ingiustamente sono finiti nel dimenticatoio. The Blair Witch Project fu un capolavoro di quegli anni, riuscì ad attirare l'attenzione in maniera clamorosa, ebbe un enorme successo a livello mediatico in tutto il mondo e, a mio avviso, è un'esperienza terrorizzante.

Tra le pagine del mio blog, più volte ho avuto modo di parlare dei mockumentary, genere che ha praticamente conquistato il genere horror, anche se film di maggior successo è riconducibile solo alla saga di Paranormal Activity, però non dimentichiamoci tutti che The Blair Witch Project è stato un po' l'apripista, almeno per quanto riguarda le due ultime decadi, a questo particolare sottogenere dell'horror, riuscendo comunque a restare un film unico nel suo genere e - a mio avviso - nessun altro film è riuscito ad eguagliare la sua qualità. Innanzitutto, prima di andare a far luce su quale sia la vera chicca che rende il film unico e particolare, cominciamo a dire che il punto di forza di The Blair Witch Project è proprio la capacità di rendere la storia realistica, questo non solo grazie ad una sceneggiatura che riesce a giustificare il continuo uso delle telecamere amatoriali, ma anche al background di fondo. Completamente realizzato con videocamere amatoriali e con attori sconosciuti, i quali possiamo dire che nella pellicola interpretano sé stessi, c'è da annotare che al momento del rilascio nei cinema, ci fu una pesante e originalissima campagna mediatica atta a pubblicizzare il film, riuscendo a spacciare il tutto per verosimile, creando una sorta di leggenda urbana. Non solo il fatto di utilizzare tre attori al loro esordio e sconosciuti al pubblico con un appeal decisamente fuori da ogni canone cinematografico contribuì alla riuscita di ciò, ma anche il coinvolgere una reale leggenda urbana, quella di Elly Kedward, ed ambientarla in una località ben conosciuta nel Maryland giocarono il loro ruolo.

Certo, stiamo comunque parlando del 1999, quando internet non era alla portata di tutti e il pubblico si riusciva ad abbindolare in una maniera a dir poco semplicissima, ma la campagna creatasi attorno al film fu unica. Basti pensare anche come questo successo proseguì: numerosi furono gli appassionati del film a visitare davvero i boschi di Burkittsville, luogo in cui è ambientato il film, tant'è che la contea nel Maryland ebbe e ha ancora tutt'oggi un'assoluta rivalutazione del territorio, divenuta oramai meta turistica per ogni appassionato di horror. E su questa cosa, ci giocarono intelligentemente anche nel sequel, Book of Shadows, purtroppo non pari al successo del predecessore ma comunque a mio avviso un'opera rimasta un tantino incompresa. Ad ogni modo, il rilascio di The Blair Witch Project fu accompagnata da questa assurda campagna pubblicitaria, atta a far sembrare gli avvenimenti del film reali, con tanto di finta inchiesta e materiale fotografico della presunta scomparsa dei tre attori; qualcosa di banale, probabilmente, ma la cosa riuscì alla perfezione. Divenne virale senza l'ausilio di social network o di internet!


Il film, di base, racconta dell'escursione di tre ragazzi alle prese con un documentario su una leggenda urbana riguardante Elly Kedward, la strega di Blair, che si vide coinvolta negli anni 40 nell'omicidio di numerosi bambini, e dal giorno dopo la sua uccisione, il suo spirito si dice ne infesti il bosco. I tre giovani, quindi, una volta addentratisi nel bosco, si perderanno e avranno a che fare con degli strani fenomeni, probabilmente legati proprio a questa "strega".

E qui voglio parlare della vera chicca della pellicola.
E se il film non lo avete ancora visto (e dovreste vergognarvi) e vi sto mettendo voglia di guardarlo, consiglio di saltare questo paragrafo. Insomma, dicevo, la vera chicca di The Blair Witch Project è che tutta la suspence che viene creata, tutto il terrore che riesce a trasmettere, non è limitata all'apparizione di una presenza o, come accade in Paranormal Activity, a quale oggetto volante. Assolutamente. Se lì il tutto era costruito solamente per creare l'attesa che qualcosa avvenga per poter finalmente cagarsi in mano (seh) all'apparizione dello spettro, The Blair Witch Project riesce a terrorizzare facendoci entrare nella psiche dei personaggi, farci percepire il loro stress e soprattutto riesce a farlo senza mai farci vedere questo presunto poltergeist! Il ché per molti potrebbe essere una delusione, ma al contrario è quel qualcosa che manca a moltissimi horror: la paura non legata necessariamente a qualcosa di visivo, di brutto, o scatenato dall'effetto sorpresa che - a dirla tutta - così è anche peggio!

Insomma, in conclusione, possiamo dire che The Blair Witch Project è l'horror definitivo. Uno di quei film purtroppo finiti nel dimenticatoio se non ricordato da alcuni pochi fan, e che scommetto che adesso molti ne parlino con sufficienza, ma secondo me non dovrebbe essere così. È un horror come un horror dovrebbe essere, cioè che vede l'orrore rispecchiato dallo stato psichico dei protagonisti con una recitazione che, diciamocelo, è impeccabile... la ripresa a metà volto è divenuta un classico. Il mio film horror preferito, anche a distanza di anni. E sarà che ne parlo così bene perché sarà stato anche il primo film horror, ma averlo rivisto dopo anni... beh, è riuscito ancora a mettermi ansia. Non credo sia poco!

sabato 29 agosto 2015



Perché in ogni film di zombie, nessuno ha mai sentito parlare di zombie?
Scommetto che questa è la domanda che almeno una volta ognuno di noi si è domandato. E se la risposta è anche abbastanza logica, ma per una volta reprimerò il mio lato da vero rompiballe e asseconderò la cosa. Benvenuti a Zombieland fu una commedia che, per l'appunto, girava proprio attorno alle cosiddette "regole di sopravvivenza all'apocalisse zombie", regalandoci una sorta di novità. E in Shaun of the Dead (vale a dire L'alba dei morti dementi) la questione viene palesemente messa a tacere perché "non è carino dire la parola che inizia per Z", cercando di darci una risposta, la domanda proprio non riesce a venir repressa. Ma, parliamoci chiaro, numerosi film (parodistici e non) hanno cercato di introdurre il concetto di zombie all'interno delle loro pellicole, come se i protagonisti già conoscessero il fenomeno, e con scarsi risultati, ma se dobbiamo parlare di originalità e di belle idee, I Survived a Zombie Holocaust è decisamente una pellicola che riesce a lasciare il segno in maniera intelligente. Scopriamo come!

Produzione neozelandese con dei trascorsi un po' travagliati, il quale è stata richiesta una lavorazione di ben cinque anni, I Survived a Zombie Holocaust è scritto e diretto dal debuttante Guy Pigden, e vede come protagonista Wesley Pennington (interpretato da Harley Neville), un nerd un po' sfigato col sogno di diventare un giorno sceneggiatore e produrre il suo personale film di zombie e che si ritrova sul set di Tonight They Come, uno zombie movie, con il ruolo di runner, vale a dire un tuttofare. Ben presto, il set del film si trasformerà in una vera e propria carneficina in quanto subentreranno dei veri zombie che creeranno scompiglio e genereranno numerose scene esilaranti, facendo il verso ai film d'azione americani e arrivando ad omaggiare numerose opere di zombie, dai film di Romero (Night of the Living Dead) a 28 Giorni Dopo. Il tutto condito con una non tanto velata critica nerd il quale appunto rende gli zombie "reali nella loro finzione" e da una storia d'amore, insolita per un film di zombie, tra Wesley e Susan (Jocelyn Christian).


Come detto, il film di base fa un po' il verso al genere americano. Dialoghi improponibili, personaggi sopra le righe (al di fuori dei protagonisti, s'intende) e violenza gratuita. Violenza che viene anche ripresa e criticata attraverso quelle "critiche nerd" che il protagonista si porta dietro durante tutto il film. Ma attenzione che comunque non stiamo parlando di un film che si basa solo sul lato nerd, perché bensì il film sia un'accozzaglia di violenza e ilarità, vede anche una sottile critica al cinema di genere e al mondo del cinema in generale e di come vengano etichettati erroneamente i film sugli zombie. Non è per niente d'impronta romeriana, se non per i classici "zombie lenti", ma di base il suo messaggio ce l'ha e si sa far ascoltare adoperando però un tono molto più ironico e meno dissacrante. Sì, perché il rispetto per i film di zombie comunque c'è, e tanto e lo si può notare dai già citati omaggi alle opere zombie che sono per lo più scenari e scene palesemente identiche. Scene che, bizzarramente, vede anche degli omaggio un po' insoliti al primo Resident Evil e al film giapponese Zombie Ass - Toilet of the Dead! O, se la cosa non sia voluta, c'è una scena molto simile che automaticamente mi ha fatto creare questo collegamento.

In conclusione, ritengo che I Survived a Zombie Holocaust non sia proprio un'opera geniale o imperdibile, ma resta un film godibile in quanto poco scontato e parecchio divertente. Ciò che per me non lo rende un film must-see è la mancanza di scene memorabili, di quelle che rimangono impresse. Nemmeno la danza maori buttata a cazzo verso il finale ci riesce. Ad ogni modo, ci tengo a ribadire che questo non causa un declassamento della qualità. Il trucco degli zombie è un po' scarso ma gli effetti speciali sono più che ottimi, gli smembramenti e le interiora dei morti sono davvero molto, molto realistici. Non un must-see, ma decisamente degno di essere visionato, in qualche modo si riesce a ridere dall'inizio alla fine.

sabato 22 agosto 2015



Della serie: "anche Danjel legge libri".
Ebbene sì. Ma non sono molto propenso a scriverne su queste pagine, a meno che non sia una di quelle cose non alla portata di tutti, esattamente come è My Life As A White Trash Zombie, primo libro di una saga urban fantasy a tema zombie scritta da Diana Rowland, autrice statunitense ed ex coroner appassionata di horror, demoni e - appunto - zombie. L'avvicinamento a questa serie di libri è avvenuta grazie a comicbookgirl19, la quale, oltre a prestare la sua immagine per le illustrazione delle copertine, in un suo video affiancò quest'opera ad un'altra di mio assoluto gradimento: iZombie, precisamente alla serie tv, facendo notare alcune similitudini. Similitudini di cui andrò ad affrontare anche io. Ma per il momento, cominciamo a parlare del libro e dei miei pensieri al riguardo.

My Life as a White Trash Zombie è traducibile in italiano come La mia vita come uno zombie povero, anche se ciò è impropriamente incorretto. Nello slang, l'espressione white trash è usata per indicare quel tipo di persone che solitamente vivono in periferia, solitamente all'interno di camper o roulotte, pochi inclini all'igiene personale i quali spendono i propri soldi in oggetti costosi quali impianti stereo o tv anziché badare alle tasse e che quasi sempre sono sotto dipendenze di alcol e/o droghe. Questo tipo di persone solitamente è di carnagione bianca. Questo è il quadro d'insieme della definizione di white trash. E Angel Crawford, la protagonista di questa storia, è proprio una di queste disadattate; picchiata dal padre perennemente ubriaco, fidanzata con un perdente con il quale una sera sì e l'altra pure ci fa a botte, Angel si renderà conto che dovrà morire, per rimettere apposto la sua vita.
"Yeah, right. I'm finally getting my life together. Too bad I had to die first."
Angel è stata presumibilmente violentata e mandata in overdose, poi è stata ritrovata nuda sul ciglio della strada, ritrovata da un agente di polizia e portata in salvo. Ma di tutto questo, Angel non ricorda assolutamente nulla, se non aver litigato col Randy, il suo ragazzo, la sera prima ed aver bevuto qualche cocktail con uno sconosciuto solo per farlo ingelosire. Come se non bastasse, una lettera misteriosa le rivela che in realtà lei è morta e che se non si ciba di cervelli ogni qualvolta avrà "Fame" potrebbe ritrovarsi in seri guai, ovvero perdere la ragione e diventare un vero e proprio zombie, senza identità alcuna. Oh, questo e che ha ottenuto un lavoro in obitorio come autista e aiuto del coroner. Ottenendo così facile accesso ai cervelli, cibo primario e fondamentale per uno zombie, Angel scoprirà vantaggi e svantaggi dell'essere uno zombie, in più verrà coinvolta in una serie di indagini riguardanti dei cadaveri decapitati commessi presumibilmente da un altro zombie! Tutto questo, ovviamente, di contorno al personaggio di Angel, la quale come già detto si ritroverà a rimettere in piedi la sua vita sistemando i casini col padre, i suoi problemi con droghe e alcol e riflettendo sull'intero senso della sua vita. O quella che è. E ci riuscirà grazie a personaggi comprimari, come i detective Marcus Ivanov ed Ed Quinn e al coroner Dr. LeBlanc, oltre all'intero staff dell'obitorio che riusciranno a farla sentire più "normale" e meno freak.

Quel che Diana Rowland racconta attraverso 310 pagine in My Life As a White Trash Zombie è una sorta di thriller drammatico con elementi horror (gli zombie, duh), dove si va ad esplorare non solo un personaggio nella sua interezza e totalità emotiva, ma anche un mondo immaginario dove gli zombie vivono tra noi e che addirittura hanno costruito uno schema sociale per sopravvivere nel mondo e, ultimo ma non ultimo, la Rowland per dare un tocco di realismo alla struttura narrativa, utilizza un ambiente da lei ben conosciuto, l'obitorio (l'autrice, come già detto, ha lavorato in un obitorio!) andando ad inserire piccole curiosità su come si svolgano autopsie più altre varie sul come funziona grosso modo il sistema americano riguardo a morti e funerali organizzati dallo Stato. Il tutto tenendo un tono lievemente cinico, riuscendo a dare un'identità forte al racconto. Identità che si ha anche grazie al modo di esprimersi molto pittoresco della protagonista, Angel, il quale - viste le sue origini sociali - si esprime in maniera piuttosto colorita ma mai volgare, risultando quindi anche divertente, su certi aspetti. Diana Rowland, per dirla in sommi capi, fa un lavoro molto particolare con My Life as a White Trash Zombie, dalla presentazione ed evoluzione del personaggio analizzandone ogni aspetto caratteriale dovuto allo shock della scoperta dell'essere uno zombie, alla struttura narrativa che, sebbene sul finale sembra voler spingere forzatamente sull'acceleratore pur di concludere, risulta molto solida. Insomma, non annoia. E se devo essere sincero, ho acquistato i quattro libri andando un po' a fiducia, avendo però paura che si rivelasse un'opera troppo adolescenziale, semplicistica e priva di contenuti. Ebbene, mi sono dovuto in parte ricredere. Semplicistica sì, contenuti ce ne sono e non sono per niente banali e frivoli, e non mi è risultata affatto adolescenziale, anche se comunque non è che stiamo parlando proprio di un'opera "adulta".

comicbookgirl19 ha prestato la sua immagine
per l'illustrazione delle cover, realizzate da Dennis Hansbury
Purista o meno?
Questa è una domanda che mi sono posto ripetutamente. Diciamo che, in linea di massima, per quanto riguarda gli zombie io sono un purista. Se sono cannibali, Romero senza batter ciglio. Senza andare troppo nel dispersivo, diciamo che sono molto legato alla versione classica dello zombie, vale a dire completamente morto, putrefatto, lento e senza alcuna capacità di pensare. Così come nelle storie, il mio tipo di film preferito sono quelli dove appunto gli zombie sono più un contorno alla storia, dove non sono presenti solo per fare inutili spargimenti di sangue. Però, è anche vero che il mito degli zombie non si è mosso solo grazie a Romero. Come non dimenticare Dan O'Bannon e il suo The Return of the Living Dead (Il Ritorno dei Morti Viventi), pietra miliare dei film trash, dove non solo è famoso per scene cult come quella in cui uno zombie poliziotto prende una radio della polizia e chiede esplicitamente "servono più poliziotti" ma anche per aver introdotto il mito dello zombie mangia-cervelli - è di fatti di conoscenza comune che gli zombie mangino cervelli, ma in realtà questo è solo nelle trasposizioni pariodistiche (vedi I Simpson), in tutte le altre pellicole mangiano semplicemente carne, umana e non. Quindi, ritornando alla domanda se è giusto essere puristi o meno giudicano My Life As a White Trash Zombie la risposta resta un no, nonostante numerosi elementi come la società formata da zombie e il loro traffico di cervelli sono palesemente fuori contesto in quanto lo schema strutturale è molto simile a quello dei vampiri. E vampiri e zombie non c'entrano praticamente nulla, tra di loro. Gli zombie sono più fighi, i vampiri fanno schifo. Okay, questo era un parere personale non richiesto, ad ogni modo che l'opera di Diana Rowland si distacchi di parecchio dalla concezione originale degli zombie è palese, ma considerando comunque che ci sia l'elemento parodistico (cervelli) che tenta di smorzare un po' il tono che rischia di sembrare troppo serioso, questo non fa solo che riuscire a dare un'identità forte al romanzo. Non è assolutamente qualcosa che pretende di essere un libro da best seller, semplicemente cerca di essere qualcosa di maledettamente diverso e che risulti divertente, qui l'inserimento anche del personaggio e dell'elemento white trash messo in risalto anche nel titolo.

Il paragone con iZombie.
E qui siamo al piatto forte. Ebbene, il paragone qui ci sta tutto ma - attenzione - non va fatto con l'opera a fumetti di Allred e Robinson, che nel loro tono voleva essere un'accozzaglia di elementi horror buttati nella mischia per creare un caos pandemonico che generasse ilarità e follia allo stato puro, ma con la serie TV. Per chi se lo fosse perso, io ho fatto già un'analisi completa della serie tv iZombie, dove ho già avuto modo di esporre le differenze tra serie tv e fumetto; dal momento in cui iZombie è stato deciso solo dopo l'uscita dei quattro romanzi, questo ci lascia proprio un punto interrogativo enorme. La serie tv a cosa si ispira, al fumetto o al romanzo di Diana Rowland? Se la risposta non è tutte e due, mi chiedo se sia stata voluta dagli autori, senza citare la Rowland o ringraziarla per l'idea, o che sia stato casuale. Il fumetto di iZombie, ricordiamo, parlava di Gwen Dylan, becchina che si procurava cervelli riesumando cadaveri, mentre la serie TV vede Liv Moore lavorare in un obitorio, come Angel. Ma non solo, la faccenda non si limita solo a questo. L'esplorazione del sottomondo degli zombie, il traffico di cervello per far sopravvivere la comunità degli zombie e convivere in segreto con gli umani non è qualcosa di unico creato per la serie TV; in vie trasverse, con modalità un po' più differenti, Diana Rowland inserisce questo concetto per prima. Insomma, non è ben chiaro se la serie TV di iZombie abbia presto spunto dalla saga White Trash Zombie, fatto sta che la Rowland ci ha pensato prima, anche se questo non va a intaccare assolutamente nulla. iZombie e My Life As a White Trash Zombie sono comunque due opere distinte, con due personaggi differenti che si muovono in elementi analoghi ma non uguali.

In definitiva.
Insomma, dopo questa disanima sulle analogie con iZombie, e sugli zombie come icone culturali, passiamo al mio parere definitivo sull'opera in argomento. Come già detto, mi aspettavo che My Life As a White Trash Zombie fosse una lettura un po' più adolescenziale, come ogni urban fantasy che si rispetti. E invece sono rimasto piacevolmente sorpreso. I toni vagamente cinici, quel tentativo ben riuscito di uscire fuori da ogni schema e l'adoperazione di un personaggio decisamente fuori dalle righe sono un qualcosa che riesce a dare identità al romanzo. In poche parole, è scritto così bene che anche essendo un romanzetto del cazzo riesce a soddisfare le aspettative. Sempre se le aspettative siano quelle di leggere un racconto drama-thriller con elementi horror, sia chiaro.


Se per caso parlandone sono riuscito a interessare qualcuno, ecco le indicazioni su come poter leggere My Life As a White Trash Zombie. Innanzitutto, iniziamo col precisare che non è una pubblicazione italiana ma americana, quindi solo lingua originale sorry. Detto ciò, la saga incentrata su Angel Crawford di Diana Rowland vede al momento quattro libri e sono disponibili su Amazon.it. Per ogni informazione, il sito della Rowland è più dettagliato e in più c'è anche il link per ascoltare il libro su Audible, nel caso vi stanchiate troppo a leggere.

giovedì 20 agosto 2015



Ciò di cui andrò a parlare oggi è un fumetto che custodisco gelosamente. Il mio piccolo tesoro.
Ho dovuto aspettare anni per reperirlo. Ho dovuto metterci tanti soldi e, ancora, ho dovuto aspettare. Perché ne parlo come se quest'opera fosse oro? Perché il Flash di Geoff Johns è parecchie cose. Non solo è il fumetto che ha consacrato definitivamente Johns come autore di punta di casa DC, ma rappresenta anche una delle migliori run in assoluto sul Velocista Scarlatto seconda solo a quella di Mark Waid, se non addirittura superiore. L'Omnibus, pubblicato da Planeta diversi anni fa, è un "fumettone" di un migliaio di pagine (800 effettive) che raccoglie i numeri dal 165 al 200 della seconda pubblicazione di Flash americana, più due speciali: Iron Heights e DC Special: Flash vs. Superman. La prima, nemmeno a dirlo, è forse la storia che ha servito a mitizzare concretamente il supereroe Scarlatto, introducendo il penitenziario di Iron Heights che sarebbe un po' l'Arkham Asylum di Central City e Keystone.

Ma freniamo un attimo e passiamo ad una descrizione più o meno dettagliata. Quest'Omnibus, come già detto, è l'opera di riferimento per Geoff Johns il quale subentra in primis come autore passeggero in attesa di trovarne uno affermato da affiancare alla testata, ma che ne diventa l'autore di punta vista la bravura e la sua innata capacità di raccontare storie avvincenti e piene di fantasia. Affiancato, quindi, dal disegnatore Scott Kolins per tutta la serie (eccetto per i due speciali), da' vita a un'incredibile run piena di colpi di scena, sentimenti e personaggi carismatici. Il Flash protagonista di queste storie non è, ovviamente, Barry Allen ma Wally West - ex Kid Flash, nipote della moglie di Barry, Iris e successore dell'eredità dello zio dopo che questi sacrifica la sua vita durante Crisi sulle Terre Infinite. Stiamo parlando quindi di un Flash decisamente diverso, meno cupo e forse il supereroe meno segnato dalla tragedia e di questo Geoff Johns non si dimentica mai; il modo in cui dipinge Wally è magistrale, mette in risalto la sua solarità, il suo lato divertente e meno cupo rispetto a tanti suoi "colleghi". Racconta di un supereroe che vive la sua vita senza nascondere la sua identità di supereroe, tutti sanno che Wally West è Flash e la sua vita è perfetta così com'è. E Wally non è più un ragazzino testardo o irruento ma un adulto, un Flash più maturo che, nonostante viva una vita altrettanto perfetta, accoglie il suo potere e quindi la sua responsabilità di supereroe senza alcun peso. Flash è un eroe positivo, nonostante le cose brutte che tentano di stravolgere la sua vita, lui ne esce sempre a testa alta, sempre pronto a rimediare ai suoi errori e a migliorarsi. Questa è la figura che Johns riesce a dare a Wally West. In maniera impeccabile.

Ma Flash non è soltanto l'unico personaggio di cui ci viene data una coerenza narrativa perfetta; anche sua moglie, Linda Park, viene descritta in maniera egregia. Una giornalista che decide di mettere da parte il suo lavoro da reporter pur di non intralciare la vita da supereroe del marito. Il detective Chyre, testardo ma uno dei migliori poliziotti anche ha un ruolo marginale, ma è sempre presente ed è uno dei personaggi che Johns riesce a farci amare. Altri personaggi introdotti da Johns sono nuovi Nemici, come Cicada, Blacksmith e il nuovo Anti-Flash, il Professor Zoom, ma di lui ne parleremo più avanti. Johns introduce questi nuovi cattivi riuscendo comunque a dare loro uno spessore, basti pensare a Blacksmith che è praticamente l'antagonista principale della saga Rogues War, una metaumana che riesce a metter su un'attività criminale senza eguali capace di mettere in scacco il buon Wally - salvato soltanto da una minaccia più grande: il Pensatore, altro villain introdotto a sorpresa e che risulta un po' come il Brainiac della situazione, capace di ribaltare la storia e renderla meno prevedibile possibile. Insomma, personaggi che si muovono all'interno di una storia che riesce ad appassionare ogni pagina sfogliata. Personaggi che, alla fine di tutto, risulterebbe difficile dimenticarsene, per quanto bene sono caratterizzati. Ma la miglior caratterizzazione di tutti i Nemici, forse, è quella di Leonard Snart alias Captain Cold, sempre in bilico tra il bene e il male, carismatico al punto da riuscire a trasmettere quel carisma anche agli altri colleghi rendendo i Nemici di Flash affascinanti tanto quelli di Batman. Nemici che in questa run vede ben due incarnazioni: la prima quella di Blacksmith che vede come membri Girder, Magenta, Mirror Master, il Mago del Tempo, Catrame, Murmur e il nuovo Trickster, Axel Walker; la seconda, invece, capitanati da Captain Cold vede la reunion dei Nemici classica, eccezione del Pifferaio, Heat Wave e del primo Trickster, James Jesse, passati tutti e tre "al lato dei buoni" (il primo, addirittura alleato di Flash!).

E se Johns riesce a introdurre nuovi villain dando loro un più che buono spessore, non si dimentica di valorizzare i nemici classici. Oltre al già citato Cold, ritroviamo anche Gorilla Grodd, il mio villain preferito; intelligente, spaventoso e distruttivo, Grodd appare in una breve storia in tre parti, ma lascia il segno. Il tutto, per portarci alla conclusione della run di Johns, quella che ha visto la sua costruzione lentamente, sin dai primi numeri (nel caso dell'Omnibus, dalle prime pagine): l'introduzione del nuovo Anti-Flash, il Professor Zoom. Il villain definitivo, quello capace di portare alla strema l'eroe e smontare il suo intero mondo, metterlo in dubbio, quello capace di aver vinto anche se subisce una sonora sconfitta. Wally, supereroe solare e sempre positivo, dopo lo scontro cio Zoom si vedrà costretto a prendere una decisione difficile, forse la più difficile tra tutte, ovvero rinunciare ad essere Flash, o meglio a ciò che rappresenta.

Questa è la motivazione del perché io reputo quest'Omnibus un'opera da custodire gelosamente. Il Flash di Johns è un'opera che è più che giusto raccoglierla in un unico volume, anche se risulta scomodissimo da leggere. Un'opera che va assaporata per intera, che deve essere presa nella sua interezza e non per ogni singola mini-storia presente tra le sue pagine. Un'opera perfetta, un volume da custodire come oro. La storia del supereroe definitivo, di un supereroe diverso che lotta contro nemici che tentano di far crollare il suo mondo sotto i piedi. Ma anche una storia in cui ogni singolo avvenimento, anche quello apparentemente più futile, ha il suo preciso scopo. Questa si chiama coerenza narrativa. E tutto questo è Geoff Johns.



Si ritorna a parlare di DC Universe Original Animated Movies.
E in effetti era da parecchio che non lo facevo, in quanto -e devo essere sincero- da quando si è optato per il rilancio del Nuovo Universo Animato, la qualità è scesa parecchio. I film di Batman sono osceni, quelli della Justice League divertenti ma privi di sostanza, ma fortunatamente dei tre film annuali previsti, quelli "fuori continuity" con storie originali (e non) sono parecchio apprezzabili. Assault on Arkham, con protagonisti la Suicide Squad ambientato nell'Arkhamverse è stato godibile, e nel futuro ci aspettano numerose chicche come un probabile adattamento di Superman: Red Son e il già annunciato riadattamento di The Killing Joke di Alan Moore; nel presente, tuttavia, c'era parecchia curiosità sul tentativo di proporre qualcosa di nuovo con Bruce Timm a tenere le redini con un progetto tutto suo. Sto parlando, ovviamente, di Justice League: Gods and Monsters un vero e proprio elseworld animato che propone la Trinità della DC sotto nuove, originali e inusuali spoglie raccontandoci una storia che attraversa un mondo completamente nuovo.

Esattamente, novità è la parola chiave per Gods and Monsters. Diciamocelo, la DC è odiosa: se da una parte ci propina sempre le solite storie banali che fan venire voglia di abbandonarla, dal nulla tira fuori delle genialate originali che riesce a rialzare il livello. Questa cosa avveniva sempre con i fumetti, stavolta è un discorso che fa capolino anche nell'ambito film animati. In un Universo DC totalmente diverso da come lo conosciamo, Bruce Timm ci presenta Superman, Batman e Wonder Woman... in maniera del tutto differente. L'ultimo figlio di Krypton non è Kal-El, bensì il figlio di Zod, Batman è un vampiro nonché il Dr. Kirk Langstrom (nell'Universo DC classico è Man-Bat) e Wonder Woman è la nipote di Altopadre, sposa di Orion, proveniente da Apokolips. I tre sono decisamente diversi dalle loro controparti che conosciamo; oltre alle loro origini, anche i loro metodi si distinguono: loro uccidono, loro sono al potere in un mondo che non vede bene la loro presenza sulla Terra. Per capirne un po' i toni sul quale si muove la storia, propongo uno dei tre cortometraggi rilasciati su Machinima, quello dedicato a Batman alle prese con una inquietante Harley Quinn.


Ebbene, come si può da subito notare, oltre al tratto indistinguibile di Bruce Timm, la storia è caratterizzata da dei toni decisamente più maturi, così come l'intero film animato. Dalle battutine a sfondo sessuale alla violenza, Gods and Monsters non è il tipo di film animato DC che siamo abituati a vedere. Numerosi elementi sono presenti nella caratterizzazione dei personaggi, la più di impatto forse riguarda il triangolo amoroso con annessa bisessualità di uno dei protagonisti, piccole cose che, a mio parere, riescono a rendere interessante maggiormente un lavoro che sostanzialmente ha una storia che sarebbe potuta essere più articolata ma che viene comunque ben raccontata in un'ora e dieci di film. Insomma, se non fosse la novità a riuscire ad attirare l'attenzione, sono i contenuti, quelle piccole cose che riescono a ridimensionare quel mondo che tutti noi conosciamo attraverso i fumetti a fare il resto del lavoro. Il tutto sposandosi con coerenza e impeccabile logica, richiamando numerose volte il DC Universe originale per poi rielaborarlo in un'ottica del tutto nuova.

Della storia, come vedete, ne ho parlato ben poco. Questo perché credo che Justice League: Gods and Monster vada vissuto come esperienza nuova, perché è esattamente ciò che la DC ha proposto: novità. Qualcosa di cui abbiamo disperatamente bisogno, qualcosa che si può ancora ottenere anche manipolando ciò che è già tra le nostre mani raccontando la storia in maniera diversa.

Il mio parere? È da non perdere.

venerdì 7 agosto 2015



E dopo un anno, torniamo a parlare di Faith Erin Hicks.
Quasi un anno fa parlai di Zombies Calling proprio tra queste pagine, in cui lodai l'autrice canadese anche se in quel fumetto era abbastanza chiaro che questa fosse alle prime armi sia a livello di sceneggiatura che di disegni; ciò che apprezzai maggiormente era la sua genuinità e il suo tentativo di risultare "originale e particolare" omaggiando numerosi film horror, in quell'opera. Oggi, a distanza di un anno appunto, torno a parlare di lei ma stavolta di Friends With Boys, graphic novel pubblicato nel 2012, vale a dire 5 anni dopo Zombies Calling, dove possiamo guardare una Hicks più matura e con più esperienza.

Faith Erin Hicks usa un espediente della sua vita reale in Friends With Boys; Maggie, come l'autrice, è una ragazza che ha avuto un'istruzione scolastica a casa, con la madre da insegnante. Ritrovatasi poi a dover affrontare le superiori per la prima volta, Maggie dovrà vedersela con le sue paure nel dover affrontare un'esperienza tutta nuova per lei. Ad aiutarla, comunque, ci sarà il fratello maggiore Daniel. La particolarità di Maggie è che è praticamente cresciuta solo tra maschi, tra tre fratelli (di cui due gemelli) e il padre, un poliziotto della sua cittadina. Una volta a scuola, Maggie fa amicizia con Lucy e suo fratello Alistair, due emarginati che l'accompagneranno nella sua bizzarra avventura per rubare la protesi di una mano appartenuta al capitano della Reaper, una nave che vide scomparire il suo equipaggio misteriosamente alcuni secoli prima. Tutto questo per far sì di scoprire l'identità del fantasma che segue Maggie da quando era piccola, probabilmente la moglie proprio del capitano della nave. Friends With Boys si muove, come si può facilmente notare, su dei ritmi bizzarri; la stessa famiglia di Maggie viene presentata in maniera alquanto particolare. I temi affrontati in questo fumetto sono numeresosi e tra questi spicca appunto la diversità ma forse più di tutti il saper affrontare dei cambiamenti.

L'opera d Hicks stavolta è decisamente un po' più matura, se a tratti il tutto può sembrare troppo buonista e in qualche modo "perfettino" per quanto riguarda il modo in cui i personaggi interagiscono tra loro, non viene comunque messo da parte il cosiddetto "mondo reale", dove le persone si comportano in maniera stupida e crudele in maniera immotivata, soprattutto nelle high school americane. Tuttavia, la storia si circonda di un'esasperante ottimismo e da una genuinità pura da parte dei personaggi coinvolti, e forse è proprio questo che Faith voleva far trasparire. Maggie cresce in un ambiente difficile, a lei non piacciono le cose che piacciono alle comuni ragazze. Lei ama gli horror, il suo film preferito è Alien e, come Sigourney Weaver, lei non vuole essere la principessa che viene salvata bensì l'eroina che prende parte all'azione. Un tema che a me sta molto a cuore, la distruzione dei canoni sessisti. La Hicks riesce a parlare di tutto questo mettendo in risalto l'emotività della protagonista, mostrando come in fin dei conti ognuno ha le proprie debolezze e non c'è bisogno di nascondersi dietro uno stereotipo per giustificarle o tentare, appunto, di nasconderle.

Come in Zombies Calling, i disegni ricordano un po' quelli di Bryan Lee O'Malley, un po' manga ma con tratti più occidentalizzati, ma stavolta si vedono notevoli miglioramenti rispetto l'opera già citata. In definitiva, Friends With Boys è un fumetto che parla di alienazione, di cambiamenti e soprattutto di amore, fraterno, tra amici e romantico, il tutto in maniera genuina. Come, d'altronde, dovrebbe essere il nostro mondo. Senza tante complicazioni, vedere tutto in maniera positiva anche se la vita ci ha soltanto riservato esperienze catalogabili come negative.


giovedì 6 agosto 2015



Reinterpretazione dei classici.
Questa è la parola chiave che da un decennio a questa parte è diventato quasi un tormentone. In un periodo in cui è difficile trovare nuove idee o riuscire ad accattivare il pubblico, prendere un concept conosciuto e stravolgerlo completamente è quasi una regola per far sì che il lettore medio occasionale venga attratto da un'opera. Nulla di dispregiativo, io stesso son stato attirato da quest'opera per lo stesso motivo. Pinocchio - Storia di un bambino è un fumetto italiano scritto e disegnato da Ausonia, nome d'arte di Francesco Ciampi che racconta in chiave moderna e grottesca la favola di Pinocchio, il quale da burattino di legno viene trasformato da ammasso di carne marcia.

Ausonia, in quest'opera, non si limita a raccontare una versione distorta della fiaba di Collodi, anzi lo ribalta completamente, lo rende opposto. Geppetto è un burattino che costruisce da un pezzo di carne parlante il figliolo Pinocchio, il quale viene rappresentato come l'unico "umano" in un mondo di burattini. Il suo naso, anziché crescere quando questi dice una bugia, gli cresce quando accade l'opposto, quando dice la verità. La Fata Turchina non è colei che aiuta Pinocchio a divenire un bambino vero, ma colei che lo sfrutta per poter far sì che a suo discapito lei si arricchisca per poter vivere una vita adagiata. Pinocchio diventa quindi una fiaba inquietante, dai toni pesantemente grotteschi (basti vedere la sua immagine, come viene presentato, un ammasso di carne putrida) e con una forte critica sociale. Ed è proprio sull'ultimo punto che s'incentra l'intera opera: Pinocchio, paradossalmente a quanto scritto da Collodi, è l'unico essere vivente che adopera la sincerità e l'onestà in un mondo dove addirittura queste sono considerate fuori legge ed è proprio qui che Ausonia propone la sua visione di (in)giustizia sia a livello sociale che burocratico, mostrando come il mondo si regga sulle bugie e come le persone preferiscano vivere, appunto, come burattini.

In definitiva, il Pinocchio di Ausonia è un'opera validissima, l'autore riesce ad esprimere il suo punto di vista sul mondo in maniera egregia e riesce a lasciare il segno, sia a livello narrativo che grafico, il quale direi che l'intera opera si regga proprio sui disegni. Cinico e grottesco al punto giusto, Pinocchio - Storia di un bambino è stato pubblicato dalla RW Lion sotto l'etichetta Lineachiara, io ci farei un pensiero perché - a mio parere - è uno di quei fumetti che se riescono ad attirare la propria attenzione, è giustissimo acquistarlo per custodirselo gelosamente.