sabato 29 novembre 2014



Era il mese di maggio quando recensii i primi due capitoli di V/H/S.
Quella volta ne parlai veramente bene, anzi sebbene non mi entusiasmò il secondo capitolo, riuscii in qualche modo ad apprezzarlo, tant'è che espressi il desiderio di vederne altri, comparandolo ed elogiandolo per originalità ad altre saghe horror di successo. Ne avrei voluto vedere una serie, ebbene è uscito il terzo film, e già mi sono ricreduto.

Andando per gradi, riassumiamo il tutto? V/H/S: Viral non ripercorre le vicende come i due precedenti film, o meglio, abbandonato il tema delle cassette su V/H/S stavolta hanno prediletto il digitale, e in un susseguirsi di uccisioni caotiche in giro per la città, i vari cortometraggi vengono trasmessi in maniera virale su ogni cellulare della città, quasi come a fare una critica sulla società di massa che, di fronte a un evento drammatico, preferisce filmare il tutto anziché intervenire, quasi come una sorta di voyeurismo macabro. I cortometraggi, per l'appunto, questa volta ne son veramente pochi, ne contiamo tre in tutto: Dante the Great, Parallel Monsters e Bonestorm. Il primo, narra di un mago e del suo "mantello magico" posseduto da un'entità maligna che divora le sue assistenti; girato interamente come se fosse un documentario, inizialmente può risultare anche carino e originale. Ma tutto scade sul finale, quando il documentario stesso diventa una ripresa diretta in cui il senso stesso di mockumentary va a farsi fottere grazie al continuo stacco delle riprese. Perché la troupe continua a riprendere? E com'è che c'è addirittura una colonna sonora in sottofondo? Mistero. Il secondo corto, invece, ci parla di un bizzarro "scambio di mondi": un tipo costruisce nel suo scantinato un macchinario che apre un varco in una realtà parallela (LOL) dove si scambia col suo opposto solo per farsi ammazzare la moglie mentre dall'altra parte trova una società al rovescio dove la gente ha dei peni antropomorfi tra le gambe. E con questa, stendiamo un velo pietoso, che per quanto di base l'idea è caruccia e divertente, si poteva fare di meglio. Il terzo e ultimo episodio è interamente girato con delle Gopro attaccate ai caschi di ragazzini che si dilettano a fare skate. L'episodio più brutto di tutti perché privo di ogni significato e logica di base, dove anche se l'idea sarebbe potuta svilupparsi meglio perché -e qui bisogna dirlo- il trucco dei demoni è veramente fatto bene, il tutto scade per vari motivi: introduzione lunghissima e pressoché inutile, facce di cazzo dei protagonisti inespressivi sulla quale le riprese si soffermano fin troppo tempo, dialoghi veramente scemi e personaggi che alla vista di mostri, anziché scappare attraverso vie di fughe liberissime, si divertono a uccidere i mostri.

Ora, sembra ci stia prendendo gusto a recensire film brutti, il fatto è che avrei benissimo evitato perché no, non sono in un periodo apatico, semplicemente quest'ultimo V/H/S non ha niente di interessante, ha delle idee che potrebbero anche andare bene, ma sono sviluppate così male che potrebbero piacere soltanto a chi ama vedere film senza seguire la sceneggiatura. E a proposito di sceneggiatura, l'episodio che trascina l'intero film è scritto e diretto da Marcel Sarmiento, lo stesso di Deadgirl, altro film che ho lodato un bel po' di tempo fa; sceneggiatore che, in un'intervista rilasciata addirittura prima di avergli affidato V/H/S: Viral dichiarò che per lui i mockumentary sono sì spettacolari, ma hanno stancato. E questo la dice tutta su quanta voglia e quale spirito ci abbiano messo nella realizzazione di ques'ultimo capitolo. Insomma, terzo capitolo lasciato al caso, sviluppato completamente male, ma così male che anche i titoli di coda son stati orribili.


E non credo che debba aggiungere altro.

sabato 22 novembre 2014



Per la prima volta provo a recensire un libro. O almeno ci provo.
Iniziamo alla grande recensendo "Tank Girl: Armadillo", giusto perché io non leggo cose comuni, e amo così tanto il personaggio di Tank Girl da averne letto anche il libro. Libro che, neanche a dirlo, è scritto dal suo stesso creatore, Alan C. Martin e vede la nostra eroina preferita alle prese con mirabolanti e ultra-violenti avventure ai limiti del nonsense esattamente come nelle sue storie a fumetti, ma stavolta con una dietrologia più fine e un po' di romanticismo. Ovviamente, non nel senso comune del termine.

Iniziamo subito col dire che Tank Girl: Armadillo è suddiviso in due parti: la prima è Armadillo, una storia in 56 parti che segue un filo conduttore non-proprio-così-logico, mentre la seconda è The Bushel, una raccolta di piccole storie, poesie e sceneggiature di storie di Tank Girl mai pubblicate. In definitiva, è una raccolta di non-sense puro, una esaltazione del personaggio da parte del suo autore che non nasconde il suo immenso amore verso la sua ragazza, attraverso delle storie che chi conosce il fumetto sa ben riconoscere; situazioni assurde, dialoghi infarciti di espressioni fantasticamente volgari, caotico e con poca cura verso i comuni standard di narrazione. Tra una storia e l'altra possiamo trovarci delle poesie che, per un buon 98% son incentrate sui protagonisti delle storie, si distaccano un tantino, trovano nel nonsense lo spirito libero che l'autore cerca di trasmettere, perché in fin dei conti quando si parla di Tank Girl è questo, quello che traspare: anticonformismo e la libertà di poter fare/interpretare le cose come ca**o vogliamo.

Vorrei soffermarmi principalmente sulla prima parte, Armadillo, storia di cui veramente si può riassumere l'essenziale, perché è l'essenziale che conta. Tank Girl, Booga, Barney, Jet Girl, Sub Girl e Zulu si ritrovano a far la guerra ad una cittadina di nome Chankers a causa di Booga e del suo passato in quella città, dove da piccolo veniva deriso da un tale Huckeblerry (denominato amorevolmente Fuckleberry). In un primo momento, Tank Girl seminerà distruzione nella cittadina solo per salvare Booga tenuto in ostaggio, poi per rapinare una banca con lo scopo di raccogliere 6 milioni per riparare il carrarmato distrutto goffamente da Booga, e infine per vendicarsi dopo che Fuckleberry tortura il disgraziato canguro e ruba una copia di Mad Magazine. E in tutto questo, si viene a conoscenza del vero nome di Barney e dei suoi genitori in una serie di eventi quasi esilaranti tanto demenziali, dove alla fine dei conti sembra proprio che tutto sia girato intorno a lei, e non alle vicende di Booga e Tank Girl!

Il titolo Armadillo non è una scelta casuale, lo stesso Martin ne spiega il senso nell'introduzione (subito dopo la lista delle recensioni negative sul libro). La parola "armadillo", ci dice, è composto da arma e dillo; la prima vuol dire armour ovvero armatura, quella in cui il simpatico animale è completamente avvolto e si rintana in esso quando è in pericolo. Tolta l'armatura, rimane solo il dillo, ovvero l'essenza stessa dell'animale. Martin ci spiega, attraverso le sue associazioni di pensiero, che tutti noi siamo degli armadillo; l'armatura è ciò che ci costruiamo noi attorno alla nostra essenza per sopravvivere alla società, alle idee che ci vengono imposte. Non smettiamo mai di essere noi stessi, semplicemente ci rintaniamo nella nostra armatura per sopravvivere al mondo esterno, tenendo scoperto pochissimo di noi stessi. E attraverso le avventure nonsense di Tank Girl e compagni, la storia gira attorno a quest'idea, di come quest'armatura diventa così parte di noi stessi che spesso dimentichiamo chi siamo veramente; ma non è impossibile esserlo. Armadillo è un inno alla spensieratezza, forse all'adolescenza perduta e messa da parte una volta cresciuti, alle cose che amiamo e di quanto ce ne rendiamo conto soltanto quando le perdiamo. Strano a dirsi, viste le abitudini anti-sociali e libertine di Tank Girl, è anche una storia d'amore, una di quelle non convenzionali, una storia di amore puro col suo canguro Booga, il quale riscoprirà l'amore che ha nei suoi confronti una volta che lo avrà perduto e nella pancia dell'"armadillo", ovvero dentro il carrarmato scortato da un esercito di pancakes (ebbene sì).

Inutile dire che Tank Girl: Armadillo non sia una storia priva di senso logico o violenta ai limiti dell'inopportuno, perché non è assolutamente vero. Battute scadenti, infantili, logica narrativa lasciata da parte per far spazio solo al nonsense puro e al caos, proprio come Tank Girl ci piace. Il libro, in conclusione, al momento non è mai stato tradotto. Io l'ho letto in inglese, e spero che molti di voi lo mastichino perché ho intenzione di chiudere questa recensione con dei versi posti a conclusione del libro, che a mio avviso racchiudono l'intera essenza di Armadillo e dell'ideale di Martin, che non posso far altro che rispecchiarmi in toto.

I love everything.

That's not just the booze talkin'.

I know I spend a lot of time killing and torturing,
that just goes to show
I'm as screwed up as everybody else.

I want this world to work,
I really do,
but I get so fuckin' angry
because all I ever see
is greed
and intolerance
and stupidity
and people mooing
and bleating
like fuckin' cattle,
"I want I want I want" is the anthem of the age.

Well fuck them.
Fuck all that shit.

Come back.
Come on in.
Come back to nature,
back to trees and grass and animal and the sky and shit.
It's sacred.
It's what you've lost.
It's why you're feeling lost.
It's that fuckin' simple.
You cannot buy it, steal it or claim it.
Just come back to it,
while it's still there to come back to.
Throw everything else away.
It's irrelevant.
It's just shit.
Nothing more.

Come back.

I love you.

T.G.

giovedì 20 novembre 2014



Jane Vasko è tornata, e stavolta ci riporta anche le 22 Brides!
Painkiller Jane - The 22 Brides è la nuova mini-serie in tre numeri dedicata all'ex agente di polizia Jane Vasko, scritta da Jimmy Palmiotti e disegnata da Juan Santacruz, team già sperimentato nella precedente mini a cavallo tra il 2013 il 2014, The Price of Freedom, di cui ho già avuto modo di parlare. Le copertine, al solito, son disegnate dalla moglie di Palmiotti, Amanda Conner, e mi chiedo perché non le lascino disegnare gli interi albi a lei...

Painkiller Jane - The 22 Brides vuole provare a far rilanciare quel gruppo di femministe cazzute e fuori dalle righe nato nel 1996 e che diede vita a Painkiller Jane. Ora, non è un mistero che PKJ abbia avuto più successo delle 22 Brides, ma farsi una domanda, no? Okay, parto prevenuto perché a me di base non son mai piaciute, ma più per il fatto che son troppi personaggi e ho sempre faticato a ricordarmi i loro nomi, nonostante avessero ognuna una particolarità differente. Comunque sia, credo sia chiaro che a me quest'ultima mini-serie non è proprio piaciuta, e vi confesso che non ho nemmeno voglia di scriverne la trama, perché è banale. Terroristi a New York, Maureen chiede aiuto alle 22 Brides perché loro conoscono bene New York e la malavita, e invece fanno un casino insieme a Jane, tra mille esplosioni e tante tette in bella mostra.

Sì, perché quest'ultima mini-serie è solo tette. Io in passato ho elogiato tantissimo Palmiotti, ma mi sa che il suo nuovo progetto, la PaperFilms, che consiste nella realizzazione indipendente (appoggiandosi alla Marvel Icon) di progetti personali suoi e dei suoi amici a tema più adulto, senza limiti di censura imposti dagli editor, faccia cagare. Voglio dire va bene, a volte gli editor smorzano la creatività degli sceneggiatori ed è giusto cercare di esprimersi come meglio si crede... purché quei cazzo di fumetti non diventino pretesto per disegnare tette e culi in bella vista. Ma fosse questo il problema, in The Price of Freedom Jane venne snaturata e il tutto sembrava volesse girare attorno al sesso, ma tutto sommato aveva una trama sensata e una buona dose di divertimento. Qui, invece, no. La trama è banale, non ha risvolti interessanti, ed è tutto un buon pretesto per inserirci parolacce, slang e tette. In passato ho apprezzato la volontà stessa di Palmiotti di fare dei dialoghi lunghissimi; come lui stesso dichiarato sulla sua pagina Facebook, preferisce realizzare un fumetto con tanta roba scritta piuttosto che delle splash-page con disegni spettacolari. E fin qui son d'accordo, tanto Santacruz disegna di merda e non può fare chissà cosa, ma se i dialoghi devono essere riempiti di parolacce in uno slang un po' troppo eccessivo, il tutto diventa inopportuno e la qualità del fumetto scende.

Palmiotti scende troppo in basso, insomma, e mi dispiace. Ma forse ho compreso che è sì un gran bravo sceneggiatore... fin quando ha un editor che gli ponga dei freni. Questa miniserie la boccio, e boccio anche la mini-storia in appendice del primo albo. Non voglio star qui a dire che rivoglio la Painkiller Jane finita nel 2007 con Everything Explodes, cambiare ogni tanto ci sta... ma se i risultati devono essere brutti disegni, dialoghi lunghi infarciti di parolacce, una storia trita e ritrita che affronta per l'ennesima volta l'argomento terrorismo, allora sì che rimpiango le vecchie storie.



Christopher Nolan finalmente abbandona Batman, e ritorna con i suoi filmoni!
Eh, sì. Nulla da togliere all'epicità della sua trilogia, ma l'essere incatenato con i progetti della DC Comics, un po' ci ha fatto mancare il Nolan di Memento, The Prestige o Inception. Interstellar è il suo personale "2001, Odissea nello spazio", ma senza scimmie e inquadrature di quaranta minuti nel nulla. Un film che ho potuto notare che ha ricevuto critiche contrastanti, sia all'uscita dal cinema che nel web, ed è l'ora che dica la mia!

Siamo in un futuro dove ormai le risorse naturali sono ridotte al minimo e la razza umana quasi sull'orlo dell'estinzione. Le regole sociali sono cambiate, non si ricerca più la scienza o le arti, bensì servono agricoltori per far in modo di produrre il massimo per poter far sopravvivere l'umanità. Cooper, il protagonista del film, attraverso dei messaggi criptici trovati nella camera della figlia, scoprirà che la NASA è ancora attiva e che sta attuando un piano per far sopravvivere l'umanità spedendola in un'altra Galassia. Ritrovatosi in un viaggio spaziale ai limiti dell'assurdo, si vedrà sottoposto alle leggi dello spazio-tempo, visiterà pianeti sconosciuti e scoprirà cosa vuol dire veramente ritrovarsi all'altro lato dell'Universo. E qui non mi voglio più sbilanciare, perché il film va visto! Dovete vederlo!

Di base, l'idea del film mi è veramente piaciuta. Nolan ama moltissimo proporci storie tra il fantastico e il realistico, mischiando in questo caso la scienza della relatività del tempo e "forze che trascendono ogni concezione della realtà che percepiamo", vale a dire, l'amore. Un'idea quasi banale, ma che risulta poetico, commovente. In fin dei conti, Interstellar non è solo un film fantascientifico, ma è innanzitutto un film che ci parla di amore. Dell'amore di un padre verso sua figlia, o di una ragazza per il suo amato disperso su chissà quale pianeta; siamo tutti spinti verso qualcosa che amiamo, e non riusciamo a razionalizzarlo, perché l'amore trascende ogni cosa che noi possiamo teorizzare scientificamente. Ed è su questo significato che il film si muove, attraverso scenari incredibili quali la ricostruzione stupefacente di mondi sconosciuti, o il viaggio verso l'ignoto e nei meandri dello spazio. Il tutto per arrivare ad un semplice messaggio, arrivare al punto A al punto B. Ma come ci siamo arrivati, forse, avrò un po' da ridire.

Ciò che mi è sempre piaciuto dei film di Nolan, è che nei finali ci ha quasi sempre dato quel senso di incertezza, ci ha lasciato quel punto interrogativo tralasciato volutamente nonostante gli spiegoni. Spiegone, che in Interstellar non manca, ma che stavolta spiega proprio tutto. Per carità, nulla si toglie alla qualità del film che rimane comunque bellissimo e spettacolare, anzi a dire il vero non è nemmeno una nota negativa, solo non ho molto gradito il dover volutamente spiegare anche quelle piccole cose che potevano essere tralasciate e lasciate intendere da solo allo spettatore (in primis, il discorso sull'amore).

Ma in definitiva, a me Interstellar è proprio piaciuto un sacco! Christopher Nolan è tornato, anche se con lo spiegone forzato, forse per voler mandare a cagare i critici che non capiscono 'na sega accusandolo di lasciare buchi nella sceneggiatura? Chi lo sa, comunque sia, diciamo pure che Interstellar è adatto a tutti, anche a chi come me non ama la fantascienza. Epico, emozionante e profondo. Uno dei film più belli di questo 2014! Da non perdere!



P.S.: Una nota in conclusione per una lamentela: ho sentito parecchi "intelligentoni" che all'uscita dal cinema han criticato apertamente il film dicendo quanto tutto fosse scontato, e avrei voluto sputare in un occhio a questa gente. Perché aver capito in anticipo cosa sarebbe successo, non toglie nulla al film, più che altro, è solo un segno di ottima percezione di chi guarda il film, ma se volete togliere anche la magia di vedere come ci si arriva, e guardare un film in maniera apatica, restatevene a casa.




Una persona, in media, utilizza il 10% della sua capacità cerebrale. Oggi lei arriverà al 100%.
Questa la tagline di Lucy, ultimo capolavoro firmato da Luc Besson con protagonista la bella (a detta di molti, a me non piace) Scarlett Johansson, uscito nelle sale italiane lo scorso settembre. E io ero lì. Con un po' di ritardo, ma la recensione arriva.

Per chi non l'avesse già visto, la trama è pressoché semplice: Lucy, una 24enne come le altre con un futuro incerto e che ama divertirsi nei festini rave, viene coinvolta "grazie" al suo ragazzo in un traffico di droga sperimentale, in cui si vedrà costretta a dover portare negli Stati Uniti da Taipei un grosso carico di droga, la CPH4 (ovvero una sostanza ricavata da una sostanza che viene rilasciata al feto durante la gravidanza, che ha come effetto un aumento delle capacità cerebrali)... dentro il suo stomaco. Una volta effettuata l'operazione, uno scagnozzo che molto probabilmente utilizza il 3% del suo cervello, dà un pugno allo stomaco a Lucy col risultato che il pacchetto si sfascia e la ragazza va in overdose, acquisendo così dei "superpoteri", o meglio le sue capacità cerebrali aumentano. Diventando di botto più intelligente e più cosciente di sé stessa, Lucy si libera e va alla ricerca dell'altra droga per riuscire ad arrivare al 100% delle sue capacità per evitare di sparire e dissolversi, e ci riuscirà grazie ad un agente della polizia di Parigi, Del Rio (Amr Waked), e al biologo che -guarda caso- teorizza, venendo anche deriso, le capacità del cervello umano se questo venisse sfruttato nel pieno del suo potenziale, Samuel Norman interpretato da Morgan Freeman. Alla fine, Lucy sconfiggerà i cattivi (chi aveva prodotto la droga) e scoprirà i segreti dell'Universo trasformandosi in una chiavetta USB. Fine.

Il film, tutto sommato, è bello. Chi conosce Luc Besson sa bene che non è uno di quelli che ama fare cose banali o scontate. Un po' di azione spettacolare, qualche effetto speciale niente male, e una storia che non risulta banale per quanto pompata quasi come se fosse un filmetto da quattro soldi, quale non è. Per non parlare del significato a cui si arriverà nel finale. Lucy è uno di quei film che va a esplorare il fascino delle teorie scientifiche andandole a mescolare con fattori che lasciano poi senza parole se ci si riflette un po' su, come per esempio il personaggio di Lucy stessa, da ragazza inutile a strafiga che prende a calci in culo chiunque. Il cervello umano ha delle barriere, o meglio, siamo noi a porcele; superare queste barriere aumenta la nostra conoscenza e la consapevolezza in noi stessi. Ma la conoscenza ci fa perdere l'umanità, diventa una corsa contro il tempo per riuscire ad assimilare più di quel che possiamo naturalmente comprendere prima di svanire nel nulla. Quant'è poetico, eh? Non reputo il senso del film banale, e nemmeno l'azione frenetica in cui si susseguono le azioni, perché in fin dei conti Lucy è uno di quei film che una volta finito ti fa venir voglia di vederlo e rivederlo ancora, o almeno è stato così per me! Il finale stesso, in cui Lucy si trasforma in un super-computer una volta raggiunto il suo potenziale massimo, rende perfettamente l'idea: viene esplorato l'Universo, e tutto resta affascinante, stupendo, ma non rimane sul banale; di punto vediamo la materia, l'anti-materia, e tante altre cose cui non si riesce bene a comprendere. Ci mostra la natura stessa dell'Universo, composto da caos e ordine, Lucy ne scoprirà i segreti e li lascerà all'umanità. A noi non c'è dato sapere. Il ché è anche logico, però la sensazione di vuoto, di fame di conoscenza che lascia alla fine del film è incommensurabile. Bello. Mi è troppo piaciuto. Passando al cast, al di là ora che a me la Johansson proprio non piace e son un po' stufo di vedere Morgan Freeman incatenato nel solito ruolo da scienziato/intelligentone/saggio/Dio, il cast non è per niente male, i personaggi seppur caratterizzati pochissimo, non toglie nulla al resto del film, anche perché alla fine gira tutto intorno a Lucy, duh.

In definitiva, Luc Besson a mio avviso ha fatto proprio un bel colpo. In un periodo in cui spopolano al cinema supereroi e i cinecomics, ci ha regalato un film che è proprio un misto tra i due. Un po' supereroe e un po' fumetto, Lucy ci dimostra che le idee originali possono ancora rivelarsi, adattarsi al cinema con gli standard di adesso (quello dei cinecomics, appunto). E, ovviamente, apre la strada a un altro supereroe dei fumetti, che personalmente adoro, e che ha un paio di similitudini con Lucy; sto parlando di Painkiller Jane, la cui regia verrà affidata alle gemelle Soska. Ma questa è un'altra storia. Chiudiamo come si deve: stanchi dell'ennesimo supereroe targato Marvel, con film che in fin dei conti, sono solo pugni volanti e poca consistenza? Lucy di Luc Besson vi regalerà emozioni e riuscirà nell'intento di farvi uscire dal cinema con la mente affamata di conoscenza.


giovedì 6 novembre 2014



Sì, dai. Ci sto prendendo gusto con le recensioni negative.
Il prossimo film di cui parlerò ha come protagonista un'altra stella della WWE, Glenn Jacobs a.k.a. Kane, ovvero See No Evil 2 il sequel del film conosciuto in Italia col titolo de Il Collezionista d'occhi, diretto dalle Soska Sisters.

Premessa: non so quanta gente segua assiduamente il mio blog, in ogni caso avevo già avuto modo di parlare delle gemelle registe, astri nascente del cinema horror ed exploitation, addirittura ne avevo decantato le lodi e nutrendo buone speranze per il sequel di un film che, se pur sapeva di già visto, non mi era dispiaciuto poi tanto. Fai un po' perché fu un parere da fan di wrestling e un po' perché tutto sommato non era maluccio, insomma... non era da buttare! E con Jen e Sylvia alla regia, ero tutto fomentato! E invece... eh, invece ahimè mi son trovato davanti a un film che poteva esser decisamente fatto meglio se non avessero puntato all'autocelebrazione. Ma andiamo per gradi, partendo dalla trama.

Siamo praticamente a pochissime ore dalla fine del primo film, in tv si parla degli omicidi perpetuati da Jacoob Goodnight (Kane) il quale cadavere viene trasportato nell'obitorio dell'ospedale locale, misteriosamente deserto e alla vigilia del compleanno della protagonista Amy (Danielle Harris). L'arrivo del cadavere di Goodnight causa una brutta conseguenza: lei non può uscire con gli amici e quindi sono gli amici che vanno all'obitorio a festeggiare il suo compleanno. Tra gli amici, oltre al fratello, abbiamo anche la bellissima Katharine Isabelle nel ruolo di Tamara, non un ruolo importante, ma questa informazione tornerà utile più in là. Insomma, qui è tutto chiaro come andrà a finire, d'altronde cosa ci si può aspettare da uno slasher movie? Jacob Goodnight si sveglia e fa fuori tutti, fine. Grosso modo, le cose vanno così. Trama più scontata di quella del primo, ma c'era da aspettarselo, alla fine era una trovata commerciale, no? Bene, ora passiamo alle dolenti note.

Essendo uno slasher movie, la trama non dovrebbe importare poi granché, non quando parliamo di slasher movie americani, almeno. Tutto gira intorno alle uccisioni e ai metodi fantasiosi in cui essi avvengono, cosa che purtroppo non accade in See No Evil 2. Tralasciando una morte ironica del tipo sulla sedie a rotelle, il film non è né crudo né fantasioso, semplicemente è fine a sé stesso. Avendo assodato ormai che la trama è scontata, tale che non dobbiamo nemmeno scoprire chi è l'assassino, sarebbe dovuto restarci giusto qualche scena violenta gratuita, ma no. Il film è intervallato di continuo da scene del primo film, e sinceramente non ho neanche capito il perché di questa scelta, e alla fine di tutto, mi è sembrato il tutto un po' autocelebrativo. Mi spiego. Le ambientazioni, le riprese, la fotografia, il lato tecnico è perfetto, le Soska Sisters ci sanno fare, ma insistono sul puntare sulla bravura degli attori, su scelte stilistiche nel girare le scene e danno poco conto alla parte più importante del film: la storia! Ma poi, che le Soska Sisters amino molto autocelebrarsi era palese già da Dead Hooker in a Trunk e in American Mary dove addirittura son volute apparire come personaggi eccentrici all'inverosimile pur di riuscire a "bucare lo schermo" e a catturare l'attenzione. Ma ci sta, con American Mary c'erano riuscite alla grande, grazie soprattutto a Katharine Isabelle, e qui arriverò a parlare di lei in See No Evil 2.

Le gemelle Soska amano molto far vedere allo spettatore il personaggio eccentrico, amano far divertire, e la Isabelle non è una cattiva attrice, ma qui andiamo all'over-acting, ovvero ha un po' strafatto, nel senso che nella sua rappresentazione del personaggio di Tamara, un po' fuori dagli schemi, un po' eccentrica e molto zoccola ha una recitazione che più che rimanere impressa fa venir voglia di entrare nel film e prenderla a schiaffi. Scusa, Katharine. Su di lei ci tenevo tantissimo a lasciare un commento, anche perché è l'unica attrice veramente brava lì in mezzo, ma non che gli altri siano cani, solo hanno ruoli meno memorabili: che le Soska avessero voluto far centrare l'attenzione su Katharine Isabelle perché tutti l'hanno adorata in American Mary? Eheh, chi lo sa. Ritornando alla scelta di voler puntare sulla caratterizzazione dei personaggi, hanno scelto di far recitare anche Kane se pure con pochissime battute e tutte uguali. Va beh, che lui sia bravo sia nella recitazione che nell'espressività è risaputo, ha a che fare con queste cose da 20 anni anche se nell'ambito del wrestling, dove la mimica e la recitazione è pane quotidiano, quindi sfondiamo un portone già aperto. Il personaggio di Jacob Goodnight, tuttavia, manca di psicologia; nel primo aveva un modus operandi univoco, riconoscibile, ed era spinto da qualcosa. Non andava ad uccidere a caso! Qui, invece, sì e ha anche perso la sua abitudine a cavare via gli occhi. Jacob è un semplice slasher carico d'odio che uccide tutti, punto. Se poi vi siete dimenticati del perché uccidesse, ci sono quegli inutili flashback del primo film che ve lo ricordano, mica si vuole perder tempo a ricordarlo al pubblico? Eh, no.

In linea di massima, beh. Non è poi 'sto granché.
Insomma, trama scontata che si sarebbe anche potuta tralasciare se ci fossero stati "ammazzamenti" fantasiosi e/o ultra-violenti, ma mancano anche quelli quindi nisba. Cast buono, le Soska volevano forse creare un film che potesse dare quell'aria da film di nicchia ma d'autore ma hanno dimenticato dei pezzi importanti alla buona riuscita di un film, e questo ne risente molto, ma veramente troppo... peccato, a questo punto temo il peggio per Painkiller Jane. Soska Sisters, vi ho decantato le lodi, ora vedete di scegliere uno script migliore e fatelo funzionare anziché giocare a fare le dive! Con See No Evil 2 avete proprio toppato alla grande, e ascoltatemi voialtri: se non lo vedete non vi perdete proprio nulla.

mercoledì 5 novembre 2014



Quanti film brutti ho recensito?
Pochi, anzi forse zero. Anche con il reboot delle Tartarughe Ninja son stato fin troppo buono, se pur non nascondendo il disappunto. Ma Leprechaun: Origins? Posso risparmiarlo? No. Assolutamente no. E badate bene che nella cover ho inserito la prima immagine promozionale che uscì del film, con l'attore che impersona il Leprecauno in carne e ossa, ovvero Dylan Postl meglio noto col nickname Hornswoggle ai fan del wrestling WWE; attore che, sebbene effettivamente "recita" nella pellicola non appare mai. Iniziamo bene, vero? Aspettate un attimo, non è tutto.

Come (forse) tutti sapranno, Leprechaun: Origins vorrebbe essere una sorta di reboot della famosa saga di Leprechaun interpretata da Warwick Davis in tutte le sue pellicole, e nientedimenoché rappresenta un cult della cultura trash horror del secolo scorso, grazie alle sue situazioni grottesche e al di fuori del senso comune di buongusto. Detto ciò, domanda cruciale: che cosa avevano in mente quando hanno deciso questo reboot in chiave dark? Dubito che la risposta ci verrà mai data, sicuro è che i produttori si son calati brutte droghe che non gli hanno nemmeno fatto effetto, e probabilmente regista e sceneggiatore erano delle vere e proprie capre. Il titolo è Leprechaun: Origins, ma di "origini" non ha un granché (origini de che, de chi, perché, tanto per capirci) e non ha nemmeno un cazzo di Leprecauno!

Come appunto ho detto poco sopra, al lavoro su questo film ci sono state per forza capre, innanzitutto perché ha una trama scontatissima e delle scene a cazzo di cane, come una di quelle finali in cui i protagonisti si infilano in un furgoncino e non hanno le chiavi, e anziché uscire e scappare mentre il "leprecauno" fa un casino della madonna sfondando tettuccio e parabrezza, decidono di perder 2 minuti interi a urlare per poi dire "dobbiamo uscire!"; per non parlare poi della scelta stilistica di puntare sempre su quel cavolo di cliché degli amici in vacanza che si rinchiudono in una casetta nei boschi! Ma il punto forte è, appunto, il cosiddetto Leprecauno che Leprecauno non è ma solo una bestia amorfa senza neanche un volto, che induce a pensare "mi dicono che lì ci sia Hornswoggle, ma per me potrebbe anche esserci Michael Jordan" visto che non mettono in mostra né il volto né la bassezza della creatura, che - a proposito - tutto ciò che fa è ringhiare e staccare orecchini, piercing e collane alla gente che gli sceneggiatori ci vogliono far credere siano tutti d'oro, come se tutti si facessero dei piercing d'oro alla lingua... Va beh. Da non tralasciare nemmeno l'errore madornale della traduzione di Túatha Dé Danann, che secondo loro vuol dire Leprecauno e non Tribù della Dea Danu nome, invece, di una delle prime civiltà celtiche, che hanno ben poco a che vedere coi Leprecauni se non per un mero collegamento sull'etimologia del termine Leprecauno:
Un'altra provenienza del termine (Leprecauno) potrebbe essere da luch-chromain, "piccolo storpio Lugh", dove Lugh è il nome del capo del mitico popolo gaelico dei Tuatha Dé Danann. (fonte: Wikipedia)
Insomma, dove si siano documentati questi non si sa. Forse volevano far finta di essere intellettuali, e hanno anche trovato una rappresentazione sbagliata di un Leprecauno visto che, invece dell'omino barbuto, dispettoso e vestito di verde c'è un mostro deforme che ringhia... e che ha una vista alla Predator. Però una cosa va detta, alla fine una peculiarità del Leprechaun originale ce l'ha: ricerca l'oro che gli hanno sottratto. Mh. Alla fine, anziché fermarlo restituendoglielo, la protagonista lancia le monete all'aria e gli taglia la testa. Sì, chi se ne frega dello spoiler, tanto non merita nemmeno di essere visto. A conclusione della scena, la tizia che scappa via nei boschi, un ennesimo ruggito del mostro, e dei titoli di coda accompagnati da immagini pressoché inutili che non danno neanche un senso al film, e non riempiono nessun buco.

Conclusione? 'Sto film fa acqua da tutte le parti.
Già l'idea di dargli un tono dark ad una saga che era puramente trash mi aveva fatto storcere il naso, ma dopo averlo visionato... non saprei, non è neanche un film horror decente alla quale potrei chiudere un occhio pensandolo a una roba a sé stante, scollegata dalla saga. È... boh. Cioè, sì dai: è una merda! E non sono solito a commenti del genere, questo film si merita questo e anche peggio!