domenica 18 ottobre 2015



Dopo Sunstone, rimaniamo in tema storie d'amore lesbo.
Qualche settimana fa, incappai casualmente nel film The Blue is the Warmest Color (La vita di Adele, in italiano) e, al di là delle scene erotiche molto esplicite, ne rimasi in qualche modo colpito tanto da andare ad informarmi, scoprendo che altri non è che una trasposizione di un graphic novel francese. Scritto e disegnato da Julie Maroh, Il blu è un colore caldo è un'opera che non mi ha particolarmente affascinato al punto di adorarlo ma, riconoscendone l'importanza e il successo, ho avuto voglia di scrivere per condividere tra queste pagine ciò che mi ha colpito di più e il mio personale pensiero riguardo al fumetto e al film da cui ne è stato tratto.

Il graphic novel.
La protagonista assoluta de Il blu è un colore caldo è Clémentine, una ragazza di 15 anni che riscopre la sua omosessualità quando fa la conoscenza di Emma, una bellissima ragazza dai capelli blu poco più grande di lei, incrociandola per strada prima per poi re-incontrarla in un night mesi dopo. Le due vengono colpite dal fatidico colpo di fulmine e dopo mesi di frequentazione e flirt, le due finalmente sfociano in un bacio e da lì è tutta in discesa. Le due finiscono con il diventare una coppia fissa, con le dovute difficoltà: Clémentine fa fatica a riconoscere che lei sia lesbica, in quanto molto sofferente dei pregiudizi sia della sua famiglia che dei suoi amici, mentre per Emma è il contrario e vive il suo amore in una maniera molto più aperta di come faccia la sua ragazza. E sarà proprio questo il motivo della loro rottura, con Clémentine che arriverà addirittura a tradire Emma con un uomo. Infine, quando diversi anni dopo la loro rottura andranno a incontrarsi nuovamente, con Clémentine sull'orlo della depressione, questa ha un attacco di cuore e muore, lasciando in eredità ad Emma i suoi diari, i quali ci accompagnano sin dall'inizio del graphic novel come voce narrante.

Il film.
La protagonista qui è Adèle, una ragazza di 15 anni che riscopre la sua omosessualità quando fa la conoscenza di Emma, una bellissima ragazza dai capelli blu poco più grande di lei, incrociandola per strada prima per poi re-incontrarla in un night poco tempo dopo. La relazione che lega i due si basa palesemente su un'intesa sessuale molto forte, ma al di fuori delle lenzuola, Emma e Adèle sono due persone completamente opposte, a partire dal loro ceto sociale di provenienza. Il loro rapporto è vissuto quindi in maniera molto fredda, arrivati ad un certo punto della loro vita, e sarà proprio per questa freddezza che Adèle, spinta dalla solitudine, arriverà a tradire Emma con un uomo. Una volta rotto il loro rapporto, le due si incontreranno nuovamente ma capiranno entrambe che il loro rapporto si basava solamente sul sesso e prenderanno strade differenti.

Le notevoli differenze.
Le due opere, oltre alle notevoli differenze riportate già nella trama, si distinguono fondamentalmente dal messaggio che questi vogliono trasmettere. Il film, sostanzialmente parla di un amore che va al di là di una semplice concezione etero/omosessuale, figurando la protagonista Adèle come una ragazza insicura sulla propria sessualità, ma palesemente bisessuale, mentre il graphic novel parla della condizione di una ragazza, in questo caso Clémentine, che non riesce a vivere a pieno la propria sessualità perché condizionata dalle etichette sociali e dai pregiudizi della gente. Se Clémentine, quindi, non riesce ad accettare la sua omosessualità per colpa del mondo che la circonda, Adèle non trova spazio nel mondo perché è lei stessa a non riuscire a definirsi. Sono molto pesanti, quindi, le differenze che Julie Maroh e Abdellatif Kechiche vanno a porre l'opera, che al di là di ogni forzato paragone che ne scaturisce - e le critiche giustissime mosse contro la pellicola - qualitativamente sia film che graphic novel si fanno forza e lasciando dei buchi reciprocamente.

Tenendo sempre a mente che quanto segue è semplicemente la mia personale opinione, ritengo che il graphic novel presenti un pesante buco narrativo che manda all'aria praticamente quanto ben fatto sin dagli inizi. Mi spiego. Ne La vita di Adèle si vive la storia tra le due ragazze passo per passo, viene raccontato con attenzione la provenienza sociale delle due, mettendo in risalto le loro differenze, ma soprattutto viviamo il rapporto dall'inizio alla fine, con sì dei salti temporali ma sempre coerenti e lineari alla storia. Ne Il blu è un colore caldo, invece, il salto temporale è bello grosso, andiamo dai 17 ai 30 anni in una sola vignetta dove ciò che è accaduto in quell'arco di tempo è raffigurato in una sola tavola lasciando le spiegazioni ad un riassunto che definire sommario è dir poco. Che Clem sia divenuta un'insegnante lo si deve capire da una vignetta in cui lei è di spalle di fronte ad una lavagna e che questa abbia tradito Emma con un uomo lo si riconduce ad un dialogo. Ma il come ci si è arrivati non c'è. Perché Clémentine ha tradito Emma? Perché è insicura della sua sessualità, non si accetta per come è, questo è chiaro... ma c'è di più. E il film questo di più lo narra, spiega come il rapporto tra le due si sia raffreddato, come accade in ogni tipo di coppia, e di come Adèle tradisca Emma con un uomo perché si sentiva sola e trascurata. Questo passaggio, a mio dire, è fondamentale e lasciarlo da parte ha lasciato un buco non indifferente spezzando bruscamente un ritmo narrativo che fino a quella fatidica tavola era a dir poco perfetta.

Un altro punto a favore del film, inoltre, è il riuscire anche a dare un messaggio più chiaro sul significato del blu, il colore che ha colpito sia Clémentine che Adèle, andando a ricollegarlo alle opere di Picasso e dal significato che questo diede al colore per definire un determinato periodo della sua vita. Andando, quindi, a sommare questo e i numerosi elementi che vanno a definire le differenze tra le due protagoniste, La vita di Adèle guadagna qualche punto. Ma ne perde nel momento in cui va a stravolgere il significato della storia e il messaggio che lancia il graphic novel. Ciò che dovrebbe essere una storia d'amore, Kechiche lo trasforma in un film erotico, basato di più sulla sintonia sessuale. 
Solo l'amore può salvare questo mondo. Perché dovrei vergognarmi di amare?
In definitiva.
Ritengo che Il blu è un colore caldo sia un graphic novel forte, con un messaggio che riesce a farsi ascoltare. Non sono rimasto molto colpito dai disegni, tuttavia, i quali a tratti li ho trovati eccessivamente grotteschi soprattutto nelle espressioni, ma è un tratto comunque distintivo e va anche bene così com'è. La vita di Adèle, invece, non trova un riscontro negativo in quanto ritengo che sia molto più "lavorato" e di conseguenza dettagliato a livello narrativo nonostante abbia di contro il fatto che stravolga ciò che Il blu è un colore caldo è in realtà, trasformandolo in un mero film erotico. Che sia stato diretto da un uomo, infatti, si nota, in quanto le scene di sesso sono anche fin troppo lunghe, come per soddisfare un pubblico maschile, lasciando proprio in disparte l'elemento romantico che avrebbe dovuto essere la forza principale a muovere la storia, ma tant'è. Non credo sia giusto, comunque, gettar via la pellicola (che ha comunque vinto la Palma d'Oro) assecondando i pareri pesantemente contrari - arrivati anche da Jule Maroh stessa -, ritengo che graphic novel e film siano due opere di una certa importanza, con due significati differenti ma belli se presi da sé. Consigliato.

venerdì 16 ottobre 2015



È stato uno dei fumetti più attesi in Italia negli ultimi periodi.
Personalmente, non ne conoscevo nemmeno l'esistenza, eppure Sunstone è un fumetto che ha goduto di un'incredibile fama prima come web-comics e poi come fumetto vero e proprio negli Stati Uniti. Scritto e disegnato da Stjepan Šejić e sua moglie Lisa Luksic, Sunstone è a tutti gli effetti un fumetto erotico ma anche romantico. Parla di BDSM ma anche di amore. Sembra qualcosa atta ad attirare esclusivamente lettori e lettrici dall'ormone attivo ma si presenta ben più di un fumetto per "pervertiti". Ho notato la pubblicità che se ne è fatta nel web alla pubblicazione in Italia dalla Panini e ho voluto leggerlo semplicemente per curiosità, visto il prezzo relativamente basso, partendo però con i piedi di piombo e ora sono qui, a parlarne, perché credo proprio che quest'opera meriti un po' d'attenzione.

La storia di base è semplice. Ally e Lisa sono due ragazze con la passione del BDSM, ma sono alle prime armi e non hanno mai avuto modo di sperimentarlo sul campo. Le due si conoscono in una chat, praticano sesso virtuale anche via webcam fin quando non decidono di incontrarsi. Le due, imbarazzatissime, scoprono di avere la stessa chimica trovata nel virtuale anche dopo essersi conosciute di persona se non addirittura più intensa. Infatti, basterà poco tempo che le due scopriranno di provare un sentimento ben più forte del sesso e del gioco a cui prendono parte.

Quando ho cominciato a sfogliare le pagine di Sunstone ammetto di provare un leggero imbarazzo verso me stesso. Una storia d'amore lesbo, okay, e 50 Sfumature di Grigio ci ha insegnato che bisogna stare alla larga dalle storie romantiche a tematica BDSM, in quanto fin troppo romanzate e destinate ad un pubblico adolescenziale. Non me ne vogliano i/le fan di 50 SdG, ho difeso quel film da ogni tipo di commento ignorante riconoscendo la capacità di riuscire a toccare una tematica fino ad oggi considerata un tabù; ciò non toglie, che quell'opera è 1) scritta male e 2) troppo romanzata (e qui mi si perdoni la ripetizione). Sunstone, a sua volta, è sì analoga alle 50 Sfumature ma tratta l'argomento in una maniera totalmente differente, con più naturalezza e un approccio decisamente più leggero. C'è sì il contorno da romanzo rosa un po' tirato con una psicologia dei personaggi un po' spicciola e frivola, ma l'indifferenza con cui l'argomento viene trattato è ciò che fa la differenza. L'accuratezza nel descrivere cosa sia davvero il BDSM, specificare come non sia una pratica da pervertiti e che si basa principalmente sulla fiducia e sul rispetto reciproco e, soprattutto, la capacità di far trasmettere questo messaggio utilizzando paragoni così semplici e che sono facilmente accettabili dalla nostra società moderna, come paragonare il mondo del BDSM ad un MMO, affiancare il sesso a qualcosa di nerd. Naturalezza, questa mi ha colpito maggiormente. Le due protagoniste, che rispecchiano un po' gli stereotipi geek e nerd, hanno un ruolo fondamentale nella trasmissione stessa del messaggio.

In definitiva, tutto ciò che posso dire di Sunstone è che è tutto sommato un fumetto all'apparenza frivolo, leggero, ma con una forte tematica che riesce a stare in piedi per conto suo. I disegni sono poi la parte forte di tutta l'opera, comprese le scene di nudo che sono sì complete ma mai volgari. L'espressività delle protagoniste sono sempre messe in risalto, sottolineando appunto l'accuratezza con cui l'intero fumetto è stato concepito. Non un semplice fumetto erotico con una parentesi da romanzo rosa, ma qualcosa di trascinante e che ha la forza tale di elasticizzare le menti più bigotte, con il lavoro di Šejić che, ancora una volta, risulta ben curato, genuino e simpatico.


lunedì 12 ottobre 2015



E sono già alla seconda parte della saga di White Trash Zombie.
La saga scritta da Diana Rowland è iniziata con My Life as a White Trash Zombie, di cui ho già avuto modo di parlarne precedentemente, e dopo aver riscontrato un discreto successo, si è protratta per altri tre capitoli. Quello di cui andrò a parlare quest'oggi è per l'appunto Even White Trash Zombies Get the Blues, titolo che richiama una serie di strisce a fumetti molto popolari agli inizi degli anni '90, Even white boys get the blues e traducibile come Anche "i white trash zombie" vanno in depressione - traduzione sommaria, il termine white trash lo abbiamo già analizzato nella recensione precedente ed è usato per identificare un certo basso ceto sociale.

E il titolo segna un interessante sviluppo, in questo secondo capitolo che vede ancora come protagonista Angel Crawford, ragazza-zombie poco più di vent'anni che lavora in un obitorio, ottima copertura per procurarsi i cervelli, suo alimento fondamentale per mantenersi umana... o almeno per quel poco che potrebbe sembrare. Attenzione agli spoiler, se avete intenzione di leggere il primo libro se ancora non lo avete fatto.

Even White Trash Zombies Get the Blues inizia poche settimane dopo la conclusione di My Life as a White Trash Zombie. Scampato il pericolo del cacciatore di zombie Ed, partner e migliore amico del neo-fidanzato di Angel Marcus, la nostra protagonista si ritrova coinvolta sin dagli inizi con un nuovo caso tra le mani: uno zombie di loro conoscenza viene ritrovato morto e Angel si ritrova ad indagare completamente da sola in un caso in cui nessuno vuole venir coinvolto. Né gli amici dell'obitorio, che reputano la sua storia troppo assurda, né il suo fidanzato-partner Marcus e dello zio Pietro Ivanov (entrambi zombie). Angel con l'andare avanti della storia si ritroverà ad affrontare quella che sembra essere una vera e propria mafia zombie, ma avrà anche vedersela con i suoi problemi personali derivati dalla sua precedente vita incasinata che, sebbene lei abbia intenzione di sistemarla, gli errori del passato continuano a tormentarla. Non mancano quindi problemi interpersonali infine, rendendo appunto la vita di Angel più che difficile, ma saranno proprio questi problemi a rendere Angel una ragazza più forte e indipendente che mai.

Considerazioni.
Questa seconda parte l'ho trovata avvincente tanto quanto lo è stata la prima. Il tutto è ancora scritto in prima persona, permettendo un collegamento diretto con la personalità di Angel, la protagonista assoluta, senza lasciar da parte dubbi e insicurezze, riuscendo a farci entrare in contatto con lei esplorandone punti di forza e debolezze. Encomiabile ancora una volta, quindi, il lavoro fatto dalla Rowland, che riesce a dare ancora più spessore ad un personaggio che, se pur di poco, è mutato di poco a poco. La storia scorre abbastanza bene, ha dei ritmi molto veloci e lascia parecchi buchi che però vanno subito a richiudersi anche se in maniera repentina. Ed è proprio qui che secondo me la scrittura di Rowland va un po' a perdersi. O meglio, la maniera repentina con cui conclude "senza concludere" va anche bene visto che la saga ha altri due capitoli a disposizione, il problema è il modo. Diana Rowland ci butta dentro troppo buonismo. Descrive la vita di Angel come piena di merda (parole sue!) e, per indicarne il cambiamento in positivo, utilizza un buonismo così finto da risultare fastidioso. Angel impara che le persone attorno a lei ci tengono, fin qui va anche bene, ma non fino a toccare il ridicolo. Queste piccole parti, come il finale per l'appunto, mi hanno lasciato un po' indifferente, ma questo è un semplice parere personale, anche se credo potrebbe ritrovare parecchi riscontri.

In definitiva, Even White Trash Zombie Get the Blues si mantiene sugli stessi standard del primo capitolo, anche se qui il tono da urban fantasy si fa sentire maggiormente dal momento in cui viene plasmato il sottomondo degli zombie, solamente accennato nel primo capitolo. L'elemento horror viene trasformato in fantasy, quindi, mentre quelli drammatici e thriller fanno da contorno all'intera storia dove però, a differenza del primo libro, assumono quei toni adolescenziali da cui sfuggivo. Una lettura ugualmente adatta ad ogni età, leggerino e accattivante. Eliminando il fastidioso buonismo, è una saga che vorrò assolutamente concludere. Ci ritroviamo sicuramente tra queste pagine con White Trash Zombie Apocalypse, quindi - ma con una dovuta pausa di almeno un mesetto (o anche più) per dar spazio ad altri libri che ho ancora da parte.

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La saga incentrata su Angel Crawford di Diana Rowland vede al momento quattro libri, ma non è una pubblicazione italiana bensì esclusivamente americana, quindi è disponibile solo in lingua originale che potete trovare o su Amazon oppure sul sito della Rowland, dove inoltre potete trovare il link per ascoltare il libro su Audible, nel caso vi stanchiate troppo a leggere.

lunedì 5 ottobre 2015



Inauguro con una quadrupla recensione questa "rubrica" dedicata a Bruno Mattei.
Per chi non lo sapesse, Bruno Mattei è un regista - anzi, "regista" - italiano ben noto per la sua voglia di riciclaggio o meglio a dire furti. Se quello del riciclaggio di materiale girato ma mai utilizzato in altre pellicole, anche di maggior successo, era un'operazione molto in voga dagli anni '50 agli anni '70 (quando c'era il boom del cinema d'exploitation), Bruno Mattei riprende quest'operazione nel modo più sbagliato possibile, andando a prendere pari passo scene già utilizzate in altri film, oltre al suo vizio di "omaggiare" altre pellicole che più che omaggi sono praticamente le stesse scene.

Colazione da Bruno è un titolo a casaccio, facendo un po' il verso a Colazione da Tiffany, saltato fuori dopo una domenica mattina passata a far colazione visionando Fauci Crudeli (dopo una nottata passata a guardare ben altri due film di Mattei) con un amico, a cui dedico questa intera rubrica. Bene, in attesa di un'altra serata trash, inizio con l'inaugurazione parlando di ben 4 film del Maestro Mattei: Virus, Fauci Crudeli, Mondo Cannibale e La Tomba.

Virus.
Anche noto col titolo L'inferno dei morti viventi, Virus percorre la falsariga dei film romeriani sugli zombie. Girato negli anni '80, con una tecnica abbastanza discreta, Mattei - in coppia con Claudio Fragrasso, altro personaggio discutibile della cinematografia italiana - omaggia sin dall'inizio i film di Romero riprendendo gli stessi personaggi protagonisti della sequenza iniziale di Dawn of the Dead (conosciuto in Italia come Zombi) se non addirittura la stessa sequenza, ma senza zombie. Questa squadra speciale viene poi spedita in Nuova Guinea, ma lo si capisce solamente leggendone la trama perché in realtà il film è caotico e non ha una vera e propria continuity lineare. Qui veniamo a conoscenza anche di improbabili giornalisti che, dopo essere stati aggrediti da degli zombie, si uniscono alla squadra e s'inoltrano - per qualche motivo oscuro, o forse no, ammetto di esser stato distratto - nella giungla infiltrandosi in una tribù cannibale. Totalmente a caso. Dopo venti minuti di scene di cannibali, con maschere a dir poco oscene e improponibili, contornate da immagini prese da documentari vari, vero marchio di fabbrica di Mattei, si ritorna agli zombie che fanno carneficina e il gruppo di superstiti tenta di sopravvivere.

Noia. Parecchia. Se da un lato vediamo degli effetti realizzati abbastanza decentemente, la storia di per sé non si riesce a reggere. Le immagini prese dai documentari stonano così tanto che fa venir voglia di cavarsi gli occhi, soprattutto quando tra una scena e l'altra vengono mostrate immagini inutili al rallentatore (!!) di scimmie che saltano di albero in albero e gabbiani che si tuffano in acqua. Ed elefanti. Senza contare che la pellicola dovrebbe ambientarsi in Nuova Guinea ma la scenografia ricorda più che altro il Sud America. Il pezzo forte, ad ogni modo, resta la scena all'interno della tribù indigena dove vediamo l'attrice protagonista gironzolare a caso e fare facce strane, un'attrice che sicuramente quando avrà girato la scena nemmeno sapeva cosa avrebbe dovuto guardare visto che il montaggio ha fatto il resto del lavoro con l'inserimento di riprese rubate a chissà quale documentario! Senza contare poi la mia scena preferita, quella che vedete nell'immagine sottostante. La protagonista, truccata come un'indigena locale per mischiarsi nella tribù (composta da indigeni grassi), viene accerchiata da alcuni di essi con indosso una maschera rituale. Ovviamente, anche queste immagini sono riprese da un documentario... e quel che vedete è un tentativo di riprodurre la stessa maschera cerimoniale. Io ho riso parecchio.


In conclusione, Virus è un film di merda coi fiocchi. Imperdibile se siete amanti del genere, come quasi tutti i film di Bruno Mattei. Un film che vanta di avere i Goblin sulla colonna sonora! Ovviamente, riciclando musiche utilizzate per Dawn of the Dead e Buio Omega, film dei quali ruba anche qualche scena, ovviamente. Bello, invitante quanto una merda spiaccicata sul marciapiede.

Fauci Crudeli.
Cruel Jaws, invece, è del 1995 ed è così brutto e noioso che verrebbe voglia di andare al mare e farsi mangiare vivo da uno squalo. Riprendendo la stessa identica trama, imitandone anche alcune scene, de Lo squalo di Steven Spielberg, Fauci Crudeli è così brutto che alla sua uscita non venne distrutto da critica e pubblico, ma semplicemente ignorato. Con una colonna sonora che fa un mixaggio dei più grandi successi di John Williams (la più evidente è Guerre Stellari), Mattei qui da il peggio di sé stesso, ricicla non soltanto immagini da documentari vari, tre film della saga Lo squalo, e due di Castellari e Joe D'Amato, ma anche le sue stesse scene. Sinceramente ho anche ben poco da dire. Il cast è osceno, alcune scene sono fin troppo ridicole, si ride del film ma molto raramente. Forse, l'unica cosa positiva è stata la capacità di realizzare una scenografia abbastanza in linea con le famose scene rubate, ma proprio per essere buoni, eh. Detto questo, passiamo avanti.

Mondo Cannibale.
E qui forse siamo al pezzo forte, in cui Mattei si beccherà parecchi insulti da parte mia.
Pace all'anima sua, per carità, ma Mondo Cannibale parte con dei presupposti a dir poco esilaranti e scade mostrando la sua totale incapacità non solo di fare cinema ma di capirlo! Questi presupposti, tanto per far chiarezza, è la nascita stessa del film in questione. Nel 2003, con lo stesso cast e troupe, girò Nella terra dei cannibali, ma siccome quando si trovò in fase di montaggio si accorse di avere materiale in più, decise di realizzare un altro film utilizzando le stesse. Come prendersi soldi facendo metà del lavoro, insomma.

Mondo Cannibale vorrebbe ricalcare la stessa trama di Cannibal Holocaust, con questa troupe televisiva spedita in Amazzonia per realizzare un documentario sulle tribù indigene locali. Con queste riprese degne del peggior film porno, realizzate con misere videocamere digitali, con scene che per l'appunto ricordano proprio un porno, Mattei confeziona un film ridicolo, con una trama incoerente come la caratterizzazione dei personaggi il tutto, ovviamente, inserendo qualche immagine da documentario, ma oramai sto diventando ripetitivo. Così come ripetitivo è Mattei che utilizza le stesse immagini del documentario utilizzate in Virus. Detto ciò, tanto per realizzare un quadro completo, le porcate che possiamo elencare sono: riprese di uno pseudo-telegiornale infilate MALE nel riquadro di una foto mossa di un televisore, personaggi che si scambiano i ruoli e cambiano personalità di volta in volta, dialoghi cretini e buttati a caso (es., durante una telefonata normalissima su come stia procedendo il lavoro, la protagonista ci tiene a ricordare dei giochini erotici fatti con il suo boss!). Infine, come se non bastasse il lavoro di merda realizzato da Mattei, gli attori ci tengono troppo a fare a loro volte del loro peggio, con espressioni facciali a dir poco oscene, reazioni emotive fin troppo esagerate e l'attrice principale, con il vizio di alzare il sopracciglio manco fosse Dwayne Johnson, che ha un modo di recitare degno di una pornostar.


Ma ho promesso degli insulti, e voglio mantenere a parola data.
Mattei ha tentato di omaggiare Cannibal Holocaust. Tralasciando che il suo omaggiare è alquanto discutibile, qualcuno avrebbe dovuto spiegargli che realizzare le stesse identiche scene non è omaggio ma poca fantasia, il problema più grave è stato il voler riproporre lo stesso messaggio di Deodato ma in maniera totalmente sbagliata! In Mondo Cannibale, insomma, traspare la totale incapacità di Mattei anche solo nel capire un film. Eppure non credo che ci voglia tanto a capire che in Cannibal Holocaust il messaggio era veicolato da una narrazione sì eccessiva, ma coerente, qui i personaggi si lasciano andare in barbarie in una maniera improvvisa e senza motivo. Quel messaggio, poi, viene espresso con una alquanto ridicola rottura della quarta parete. Mondo Cannibale, in definitiva, è proprio un film realizzato male, dove l'incapacità e l'ignoranza di Mattei è al suo apice... ed è proprio per questo che andrebbe visto. È un film di merda. Un film di merda che merita per farsi due risate guardando le esplosioni di rabbia insensate dei protagonisti. E del sopracciglio di Helena Wagner.

La Tomba.
Giungiamo quindi all'ultima parte con la vera perla.
Fa a botte con Mondo Cannibale per decretare il mio (fino a questo momento) film preferito di Mattei. In un mix di riprese digitali contornate da recitazioni oscene e tanto tanto blu, La Tomba si rifà alla falsariga de La Mummia, il celebre film con Brendan Fraser. Ovviamente, c'è bisogno di dire il modo di operare di Mattei? Documentari, La Mummia e L'armata delle Tenebre. Insieme a personaggi usciti fuori da Dal Tramonto all'Alba e Indiana Jones, che comunque Mattei dichiarò di esser volutamente ripresi volutamente.

Il film, che alla fine dei conti è un mix tra La Mummia e un documentario di Voyager, viene comunque considerato come uno dei migliori film mai realizzati da Mattei e su questo, forse per la prima volta mi trovo d'accordo con la critica. Indubbiamente, tralasciando ogni imperfezioni, tra tutta la merda prodotta dal Maestro, questa è sicuramente quella che merita di più. Ma non perché sia bello o ben realizzato. Le riprese ricordano (ancora) un film porno che s'incrocia con una soap opera argentina e gli attori, tutti inesperti e al loro primo ruolo, sono a dir poco imbarazzanti. Merita perché fa così pena da far ridere. Merita perché ha incongruenze atroci, perché esagera, perché qui Mattei si sforza a tal punto dall'inserire una scena di lotta pseudo-acrobatica senza ottenere nemmeno un risultato sufficiente. Merita per una scena che vorrebbe imitare, pardon, omaggiare La Mummia in cui vediamo i protagonisti, in un corridoio che dovrebbe essere stretto ma appare il contrario grazie ad una scenografia pessima, correre a destra e sinistra in continuazione. Errori che mettono in risalto l'amatorialità non solo del regista, ma dell'intera troupe. Nemmeno quando realizzavo film da ragazzino incappavo in errori così grossolani, eppure Mattei è abbastanza convinto che il suo cinema da omaggio funzioni. Ma soprattutto, merita perché risulta impossibile non ridere ad ogni singola scena! Come il graffio di un gatto che si trasforma in uno squarcio enorme che farebbe venir voglia di amputarsi una mano.

Come in tutti i film di Mattei, fa capolino l'esagerazione. Quegli elementi che potrebbero salvare di poco l'intero lavoro vengono messi fin troppo in risalto, come in questo caso gli occhi di Anna Marcello - notati da Bruno Mattei che li definì molto espressivi. Forse aveva ragione. Ma forse anche no. Fatto sta che c'è questa sacrosanta esagerazione che rovina ogni cosa, quella forzatura di qualcosa che dovrebbe essere bello ma che non lo è. Quel gusto dell'orrido, che nemmeno John Waters riuscirebbe a concepire, Mattei lo incarna.

Passi il voler realizzare film a basso costo per passione.
Passi l'usare attori inesperti e incapaci.
Passi anche l'utilizzo di telecamere digitali e la mancanza di fotografia e scenografia!

Tutto va bene, finché c'è passione.
E il Maestro Mattei di passione ne aveva.
Per quanto avrebbe seriamente dovuto smettere di fare cinema, perché non lo sapeva fare, noi continueremo ad amarlo, ad acquistare qualche DVD e io tornerò sicuramente con questa rubrica per parlare ancora del Maestro.

Scritta e non corretta.
Come ogni film di Bruno Mattei.

Dedico questa rubrica non tanto a Bruno Mattei, ma a Marcello, che con le sue visioni forzate di film di merda mi ha insegnato a riuscire ad apprezzare film che mai avrei apprezzato in passato, ricordandomi che, lì dove c'è gente che realizza film brutti al solo scopo di parodiare i blockbuster hollywoodiani, esiste quel lato del cinema che - per passione o scopo di lucro - tenta disperatamente di imitare il cinema divenendo una parodia di sé stessi, insegnandoci di riflesso che non conta quanto sia brutto o mal realizzato un film, ogni cosa - come nella vita - va apprezzato per le piccole cose.

domenica 4 ottobre 2015



Sequel. A volte riescono bene, altre volte potrebbero anche risparmiarseli.
E la seconda è quel che è accaduto con I spit on your grave 2, ma c'è anche una opzione che poche volte ha funzionato: un sequel fa schifo, quello subito dopo un po' meno. E I spit on your grave 3 è proprio questo caso. Con l'abbandono di Steven R. Monroe alla regia, subentra R.D. Braunstein che, richiamando la star del primo capitolo, Sarah Butler, propone finalmente un sequel degno di questo nome, non riproponendo la stessa meccanica del primo film come fatto col secondo capitolo, ma raccontando conseguenze e soprattutto trattando lo stesso argomento ma sotto una luce differente. Ma, come al solito, andiamo con calma.

Jennifer Hills, protagonista del primo film, dopo aver ucciso i suoi aggressori nel primo film, decide di andare avanti e cambiare identità. Ora si chiama Angela, ha un lavoro d'ufficio (non ben precisato), subisce le moleste - anche se pacate - avance del suo collega e partecipa ad una terapia di gruppo composta da donne che hanno subito violenze. Qui conosce Marla, una donna dal carattere forte con la quale stringe una forte amicizia visto che le due condividono lo stesso ideale estremo di giustizia. Quando Marla viene assassinata dal suo ex ragazzo, qualcosa scatta in Angela e decide di far giustizia a modo suo assassinando ogni artefice di violenza sulle donne che partecipano alla seduta.

Abbandonato per certi versi il genere rape and revenge, I spit on your grave 3 continua ad utilizzare l'espediente della violenza per far percepire il messaggio al pubblico, ma utilizzando canali differenti. I temi principali, oltre alla violenza e allo stupro, sono la giustizia e la vendetta, due concetti che si discostano notevolmente tra loro ma che ogni tanto si mescolano creando un tantino di confusione. E questa confusione è ben presente se non addirittura ben marcata durante la narrazione. Angela/Jennifer oramai non è più una vittima. Sì, è notevolmente scossa e la sua psiche oramai vacilla, ma il ruolo della vittima oramai non le si addice più; ora è uno strumento di vendetta, è la voce di quelle donne troppo spaventate per fare ciò che andrebbe fatto, ovvero reagire alla violenza con altrettanta violenza - se non addirittura maggiore. Ma al di là di ciò, quel che il film vuol mettere in risalto è proprio appunto la giustizia, la mancanza di fiducia nelle autorità e come il sistema burocratico abbia delle notevoli falle, al punto che addirittura gli stupratori - alla fine dei conti - riescono anche a farla franca. E il personaggio di Angela, sia chiaro, non è affatto positivo. Laddove lei reagisce a questa situazione deplorevole, finisce con l'esagerare a raffigurare l'esatto ritratto di una persona vittima di quel sistema che sta cercando di scuotere per far sì che venga ascoltata, per far sì che le cose cambiano. Ma a discapito, ne viene via la sua salute mentale, finendo con l'aggredire anche il povero collega che, lì dove cerca di avvicinarsi a lei in modo pacato e poco invadente, diventa anch'esso un elemento di disturbo alla sua stessa emancipazione. Angela/Jennifer diviene dunque un'ideale giusto ma distorto dal mondo corrotto in cui siamo costretti a vivere.

In definitiva.
I spit on your grave, il primo film e remake di Non violentate Jennifer, è divenuto sin da subito uno dei miei film preferiti. Molto forte, cruento e violento abbastanza da riuscire a esprimere lo sdegno e lo schifo che si prova pensando allo schifo che abbiamo attorno. Per quanto riguarda il secondo capitolo, invece, rimasi un po' deluso in quanto questi altro non era che lo stesso film ma con protagonisti differenti che sembrava cercasse più di scioccare che di raccontare una storia originale. Questo terzo film, invece, mi ha preso abbastanza bene. Al di là di alcune esagerazioni che si sarebbero potute facilmente evitare, ha degli elementi abbastanza solidi dalla sua: una trama differente dai primi due film, una continuità logica e un messaggio. Il terzo è fondamentale e credo anche che l'utilizzo di certi toni esagerati giustifichi il fine al cui il film cerca di arrivare.

Insomma, in parole povere: mi è piaciuto.
Non tantissimo quanto il primo, lo ammetto, ma in confronto al secondo è salito di livello. È tutto ciò che mi aspetto da un sequel fatto come si deve. Se non siete certi di voler vedere questo terzo capitolo perché il secondo vi ha detto poco o nulla, suggerisco di dare una chance a questa terza parte.


sabato 3 ottobre 2015



Metà anni '90. Il cinema parodistico spopola nelle sale.
E Jerry Calà è all'apice della sua carriera.
Cosa c'entra Jerry Calà con il cinema parodistico, ci chiediamo. Cosa c'entri Jerry Calà col cinema, invece, è tutt'altra storia. Chicken Park è il film di debutto alla reggia di Jerry Calà ed è la parodia del colossal Jurassic Park in quell'epoca uscito da poco nelle sale e di cui tutti noi conosciamo il successo. In linea generale, Chicken Park mantiene fede al cinema parodistico statunitense, quello consacrato con i vari David Zucker, Jim Abrahams e via discorrendo, inserendo qua e là anche altre parodie e/o citazioni ad altre pellicole di successo. Riuscendoci abbastanza male, c'è da dire. Prima però di proseguire con le considerazioni personali, un breve riassunto del film, che vede come protagonista proprio Jerry Calà (che qui non esclama mai "Libidine" :( sigh) e Demetra Hampton, che con piacevole stupore ho scoperto che si tratta di colei che diede il volto alla Valentina di Crepax nella serie televisiva. Non c'entrava niente, ma volevo scriverlo. Ritorniamo a Chicken Park.

Vladimiro è un tizio che se ne va in giro con un pollo il quale, dopo una lotta clandestina buttata lì a cazzo, viene rapito e spedito a Chicken Park, un luogo dove clonano... polli preistorici (vabbè). Vladimiro parte quindi alla ricerca del suo uccello e si ritrova, ancora a cazzo, a cena con la famiglia Addams per poi scappare, sempre a cazzo, dai polli giganti (che non hanno mai le stesse dimensioni). E poi si limona Demetra Hampton, che è quasi sicuramente il motivo per cui Jerry Calà ha girato questo film.

Ora, non starò qui a parlare di quanto sia un film veramente brutto.
Non starò qui a precisare che Jerry Calà, che ha girato completamente il film in lingua inglese, ha fatto girare la pellicola in tutto il mondo convinto che facesse sganasciare dalle risate. Voglio fare qualcosa che nessuno ha il coraggio di fare. Ne voglio parlare BENE. Perché, sì, il film tenta di strappare qualche risata forzatamente e non ci riesce, ha dei tempi comici troppo lunghi e ripetitivi che riescono a spezzare anche quei pochissimi momenti in cui fa realmente ridere, ma in linea generale - a mente più aperta - il film può essere rivalutato e visto sotto un'ottica più positiva. Iniziamo parlando appunto della sua comicità. Tralasciando i già citati momenti troppo lunghi, si tratta comunque di un umorismo raffinato, se non di denuncia è quasi come un rimarcare delle ovvietà ridicolizzandone il concetto. I semafori buttati in mezzo alla foresta è un chiaro esempio di come, appunto, siamo abituati in alcune regioni di Italia dove sono sistemati in luoghi improbabili, oppure - e qui andiamo sul sofisticato - la scena dell'arrivo in aeroporto, dove iniziano a partire una serie di riferimenti cinematografici che potrebbero simboleggiare l'esportazione del cinema statunitense in tutto il mondo.

Ed è partendo da qui che poi ci spostiamo sul punto forte dell'intera pellicola. Anche se il tutto viene gestito male, Jerry Calà tratta con sufficienza e superficialità numerosi temi proprio per ritrarre un quadro atto a dimostrare cosa lui pensi sia in realtà il cinema. E il messaggio è abbastanza chiaro, è un elemento richiamato a più riprese in quell'ora e mezza: il sesso. Il sesso lo ritroviamo non solo palesemente nelle gag più esplicite ma anche a livello subliminale. Già è rintracciabile nel contesto intero del film, il quale ha come antagonisti degli enormi uccelli (cock, in inglese, ma forse la cosa risulterebbe più ovvia in lingua americana); Jerry Calà stesso ha come unico scopo in tutto il film di ritrovare il suo uccello. Per non parlare del finale, dove il nostro eroe (!!) ha un faccia a faccia con un pollo gay; scena forse un tantino omofobica, ma atta a spiegare come funzioni il cinema. Il sesso è la chiave di tutto, ma per far più soldi bisogna dare di più, in quell'ambiente. E il tutto è collegabile al contesto "cinema" sin dalle prime fasi del film, in cui Calà spiega come il suo pollame, trattato con la massima cura e il massimo amore, si trasformi in un circolo di vizi (alcol, droghe, prostituzione!), così da spingerlo addirittura a viaggiare e adattarsi in un altro contesto dove però finisce alla stessa maniera. È quindi un'esortazione dello stesso Calà a guardare la vita (e il sesso stesso) in una maniera più gioiosa, senza farsi corrompere dalle belle donne vogliose e ninfomani.

Quindi è questo ciò che il film è riuscito a trasmettermi.
Peccato, però, che tutto finisca nel cesso per colpa di una regia veramente fatta male e una sceneggiatura che, sebbene abbia dei punti di forza, scade particolarmente per il semplice fatto che è un'accozzaglia di gag e non una storia lineare, un po' come accade con i più recenti Scary Movie. Insomma, Chicken Park non lo ritengo affatto da buttare. Un film con un messaggio genuino, forse un po' ignorante sotto alcuni aspetti, lanciato anche senza un briciolo di arroganza (come Greggio con Box Office). E se aveste visto il film e, leggendo queste righe, aveste voglia di linciarmi, vi ricordo che quando vi lasciate con il vostro/a ragazzo/a non ritenete mai buttato il tempo passato con questi, anche se si comporta di merda, conserverete dentro di voi quel lato buono. E questo è Chicken Park: un ex incapace che ha cercato di dare il meglio di sé stesso fallendo.

Clamorosamente.