giovedì 31 dicembre 2015



Una serie tv che mi ha colpito particolarmente.
Esordisco così per mettere già in chiaro che ciò di cui andrò a parlare in questo ultimo post del 2015, dopo un mese di silenzio, è una delle cose più belle che abbia mai visto e non tanto per la narrazione e le dinamiche di essa in sé, ma per le emozioni che mi ha dato. Personalmente, se pure sia una persona emotiva trovo difficile che qualcosa mi colpisca a livello di emozioni, ma Sense8 ci è riuscito se pure forse non ci si trova nemmeno a un gran capolavoro, visto che nonostante il successo avuto, non se ne stia parlando più di tanto rispetto a tante altre serie. Insomma, premesso ciò e ricordando che comunque io non sia un gran patito di serie tv (ergo, potrei forse esagerare con ciò che andrò a scrivere), parliamo di Sense8. Diretta dai fratelli Watchowski e co-sceneggiata insieme a J. Michael Straczynski, narra delle vicende di 8 persone, nate lo stesso giorno -l'8 agosto- che in apparenza nulla sembrano condividere tra loro, tranne un particolare: sono tutti collegati telepaticamente.

Definire un protagonista assoluto è un po' difficile, in quanto le vicende girano attorno agli 8 sensate, i quali tutti giocano il loro ruolo sia nella storia principale, vissuta principalmente dal poliziotto di Chicago Will, la DJ islandese Riley e la transessuale Nomi alle prese con Whispers, un altro sensate con la missione di trovare ed eliminare quelli come lui. Al fianco del trio, come detto, giocano i loro ruoli fondamentali anche Sun, donna d'affari coreana ed esperta in arti marziali, "Van Damme" Capheus originario del Kenya e autista di matatu, Kala, di Mumbai, in procinto di sposarsi con Rajan ma innamorata di Wolfgang, altro sensate di Berlino nonché scassinatore e infine Lito Rodriguez - attore omosessuale e forse il personaggio un po' più inutile di tutti, ma su questo torneremo più tardi. Le vicende, grosso modo girano attorno alle storie di questi 8 personaggi, i quali, condividendo il loro legame psichico, saranno sempre vicini nei momenti di difficoltà e si aiuteranno "prestandosi" a vicenda le loro personali abilità - come per esempio, Sun leverà parecchie volte dai guai i suoi compagni della Cerchia grazie alle sue doti di combattimento, eccetera.

Non mancheranno nemmeno gli amori nati proprio grazie a questo legame psichico così come non mancherà una profonda empatia tra i personaggi che, oltre a tirarli fuori dai guai salvandosi la vita a vicenda come già detto, si scruteranno dentro aiutandosi nelle loro vicende personali. Ed è proprio sul piano emotivo che il sensate che più gioca il suo ruolo è Riley Blue, il quale ha l'inconsapevole compito di rasserenare il resto della Cerchia anche solo grazie ad una semplice canzone. Riley che a mio avviso è il personaggio più complesso di tutti, con il suo carattere solitario ma comunque a suo modo triste e sereno allo stesso tempo. Il lavoro fatto dai Watchowski, poi, fa in modo che questi personaggi non siano unilaterali e, qui complice anche il lavoro dello sceneggiatore Straczynski che ha una laurea in psicologia e sociologia, si mostrano a tutto tondo e presentano una caratterizzazione reale e coerente con la psiche umana, andando cioè a mostrare ogni singolo aspetto ed emozione dei personaggi.

Il primo punto forte di questa serie, quindi, è proprio la caratterizzazione dei personaggi, mai scontati e approfonditi quel che basta per dare un quadro completo per far capire allo spettatore chi siano. Il loro ruolo, poi, gioca comunque un fattore importante sia nella trama principale che in quelle secondarie che riguardano ogni singolo protagonista, facendo in modo quindi di risultare il tutto qualcosa di ben sensato e costruito. Mi è piaciuto molto anche come i personaggi abbiano interagito tra loro, quando questi mettono le proprie abilità in aiuto degli altri personaggi senza nemmeno sapere il perché. Il personaggio di Capheus, per esempio, è il primo a sfruttare le abilità di Sun per tirarsi fuori dai guai, e mentre Sun è in carcere a scontare una pena di cui non ha alcuna colpa, non negherà un aiuto al resto della Cerchia perché è ciò che fa lei, aiuta le persone. Capheus stesso, una volta capito il meccanismo dei suoi poteri, si mette a disposizione come può per dare una mano ai suoi compagni sensate. Kala, la farmacista di Mumbai, appare forse meno rispetto ad altri personaggi e la sua utilità si restringe ad un singolo evento, ma a suo modo serve a trascinare lo spettatore attraverso quella visione differente che i Watchowski hanno intenzione di dare, mettendo a nudo realtà differenti mostrando queste come siano tutte uguali, sotto la superficie. E stiamo parlando sempre dal lato emotivo. Perché Sense8 parla proprio di questo, alla fine. Emozioni umane.

Il personaggio di Lito, che un po' serve ad alleggerire i toni della serie con la sua storia che contiene un po' di dramma e commedia, ne è la chiara dimostrazione. Se Riley fa da trascinatrice nell'intera serie come personaggio rassicurante, Lito spesso e volentieri condivide con gli altri la sua frustrazione - e in un determinato momento, la sua passione - scombussolando un po' gli equilibri emotivi degli altri personaggi, risistemati poi da Nomi, un altro personaggio chiave ma a mio avviso un po' troppo vittimizzata nel complesso, se pur viene mostrato di lei un carattere forte e combattivo.

Come dicevo, Sense8 parla di emozioni umane.
Ed è il motivo per cui mi è piaciuto veramente tanto.

Sense8, nel suo complesso, analizza la mente umana e ne mette in mostra le emozioni, ci fa vedere come tutti, dal pilota di matau africano all'attore omosessuale, sotto la superficie siamo tutti uguali. Il fatto di aiutarsi a vicenda dovrebbe essere un fattore del tutto naturale e invece nella società di oggi viene messa in disparte per l'egoismo (messo in risalto anche da Lito, l'ultimo sensate ad avere un reale contatto con gli altri). Non a caso i sensate ci vengono presentati come lo stadio evolutivo successivo all'essere umano e Whispers, il cattivo di turno e i suoi sottoposti, ritengono la Cerchia un nemico da eliminare in quanto possono realmente fare la differenza, nella società di oggi. Questo aspetto, comunque, non viene approfondito in questa prima serie, in quanto in risalto ci sono solo le singole storie dei personaggi principali, ma con un occhio più introspettivo è facile andare sotto la superficie e capire di cosa questa serie voglia parlare perché, in fin dei conti, è facile che possa colpire chiunque, vista la sua struttura narrativa e il suo modo di concentrarsi su ogni singolo personaggio.

In definitiva e in conclusione continuo a ribadire per l'ennesima volta che Sense8 è stata una rivelazione. Veramente bella. E per il motivo elencato poco sopra, ovvero il messaggio di uguaglianza, il modo di smontare la concezione del diverso e presentarlo come normalità, utilizzando come espediente narrativo la percezione psichica tra soggetti differenti provenienti da diversi contesti sociali e soprattutto culturali. Sense8 è quindi l'ultima serie di questo 2015 che condivido e che "promuovo", sperando che a molti faccia lo stesso effetto che a me, perché come messaggio è forte ed è qualcosa a cui io stesso tengo veramente molto. Guardate quindi Sense8 in questo prossimo 2016 mentre nel frattempo vi auguro un buon anno!

giovedì 12 novembre 2015



L'ho detto molte volte su queste pagine: non sono un appassionato di videogiochi.
Lungi da me il voler essere un gamer accanito o un espertone del joystick, faccio parte di quella categoria che, di tanto in tanto, si getta su di un videogioco e se lo spolpa finché può. E principalmente, come più volte ribadito, spesso e volentieri mi concentro più sulla storia che sul gameplay in generale. E insomma, con la dovuta premessa (che lo so, è trita e ritrita) quest'oggi voglio parlare di Diabolik: The Original Sin, un punta-e-clicca rilasciato dalla software house italiana Artematica nel 2007 e, com'è ovvio, ispirato al personaggio creato dalle sorelle Giussani, Diabolik - che tra l'altro è l'unico personaggio seriale italiano a fumetti che a me piace.

Diabolik: The Original Sin è una storia ambientata ai giorni nostri, con un tocco stilistico anni '60 sia nella narrazione che nelle ambientazioni e narra dell'impresa di Diabolik nel tentativo di salvare la sua compagna Eva Kant, rapita da un'organizzazione misteriosa che sembra voler manipolare il famigerato ladro per via delle sue innate abilità. Detto ciò, muovendosi attraverso diversi scenari, tra cui anche l'abitazione di Diabolik ed Eva e il loro rifugio, avremo la possibilità di manipolare entrambi i personaggi più un terzo, il tutto per far scorrere la trama che si muove esattamente secondo le dinamiche del fumetto edito da Astorina. E chi ha letto le storie di Diabolik conosce bene il ritmo veloce delle sue storie, gli intrecci che si vengono a creare e le caratteristiche di ogni personaggio che, ovviamente, racchiude i tre principali protagonisti delle storie: Diabolik, Eva e Ginko.

In linea di massima, le mie considerazioni a freddo sul gioco è che... è bello, ma nulla di eccezionale. Mi spiego, perché assolutamente non voglio affatto sminuire il lavoro fatto dalla software house, ANZI! Ma voglio andare per gradi. La storia di per sé, come ho già detto, si muove esattamente come un racconto di Diabolik, veloce e incisivo, anche se a mio avviso un po' tirato nel finale, risultando approssimativo e con l'impressione che sia stato fatto alla svelta, per quanto riguarda la grafica non posso esprimermi, diciamo che per essere una produzione italiana è abbastanza soddisfacente nonostante il numero di pixel veramente limitato. Ottime, però, le texture dei personaggi che, sebbene lasciano desiderare un po' nei volti, sono veramente soddisfacenti soprattutto nel personaggio di Diabolik! Le animazioni, vale a dire i filmati di intermezzo, sono sviluppate a mo' di motion comic e devo dire che riescono nell'impresa nel dare quel tocco stilistico ben caratterizzante, ma tutt'altro discorso sono le animazioni ingame, un po' macchinose e lente - ma per fortuna è necessario lasciar premuto il tasto sinistro del mouse per far dare uno scatto al personaggio! Infine, per quanto riguarda gameplay e dinamiche di gioco, qui alzo le mani. Il gioco, essendo un punta e clicca, necessita solamente l'uso del mouse più qualche scorciatoia dalla tastiera (il tasto spazio per l'inventario ed F5 per salvare) e ovviamente richiede la risoluzione degli enigmi per procedere nel gioco.

Gli enigmi, appunto.
Enigmi che sono proprio il punto cruciale del gioco e che possono risultare banali, difficoltosi perché pur semplici nella loro difficoltà nella risoluzione e - taluni, specialmente l'ultimo - veramente ma veramente da grattacapo! Per chi ha già giocato a numerosi punti e clicca, il gioco potrebbe risultare nemmeno quello dei più difficili, io che sono un giocatore occasionale e amante del genere, per certi aspetti ho trovato certi enigmi un vero e proprio dito nel culo. In totale, il gameplay richiede un bel paio di ore di gioco per essere concluso e credo non sia poco, anzi.

In definitiva, posso dire che Diabolik: The Original Sin è un gioco che va giocato ma solamente se si è fan del personaggio, come dovrebbe essere ovvio. Ha moltissime pecche, sia a livello grafico che di gameplay, ma sono tutte superabili visto e considerato che il numero di bug è veramente molto limitato, anche se tuttavia comparandolo ad un qualsiasi videogioco non è nulla di eccezionale. Consigliato quindi agli amanti del fumetto, in quanto le ambientazioni e la dinamica riesce a richiamare l'atmosfera di questo. Per chi, come me, alla fin fine vuol passare solo qualche ora di svago.

DA COMPRARE, non da downloadare.
Fidatevi di me. Il prezzo non è nemmeno altissimo.
Considerato che all'interno della scatola di gioco c'è un prequel e un indizio fondamentale per la risoluzione del gioco... va comprato. Son soldi spesi bene! E poi, diamo più soldi alle software house italiane!!!

domenica 18 ottobre 2015



Dopo Sunstone, rimaniamo in tema storie d'amore lesbo.
Qualche settimana fa, incappai casualmente nel film The Blue is the Warmest Color (La vita di Adele, in italiano) e, al di là delle scene erotiche molto esplicite, ne rimasi in qualche modo colpito tanto da andare ad informarmi, scoprendo che altri non è che una trasposizione di un graphic novel francese. Scritto e disegnato da Julie Maroh, Il blu è un colore caldo è un'opera che non mi ha particolarmente affascinato al punto di adorarlo ma, riconoscendone l'importanza e il successo, ho avuto voglia di scrivere per condividere tra queste pagine ciò che mi ha colpito di più e il mio personale pensiero riguardo al fumetto e al film da cui ne è stato tratto.

Il graphic novel.
La protagonista assoluta de Il blu è un colore caldo è Clémentine, una ragazza di 15 anni che riscopre la sua omosessualità quando fa la conoscenza di Emma, una bellissima ragazza dai capelli blu poco più grande di lei, incrociandola per strada prima per poi re-incontrarla in un night mesi dopo. Le due vengono colpite dal fatidico colpo di fulmine e dopo mesi di frequentazione e flirt, le due finalmente sfociano in un bacio e da lì è tutta in discesa. Le due finiscono con il diventare una coppia fissa, con le dovute difficoltà: Clémentine fa fatica a riconoscere che lei sia lesbica, in quanto molto sofferente dei pregiudizi sia della sua famiglia che dei suoi amici, mentre per Emma è il contrario e vive il suo amore in una maniera molto più aperta di come faccia la sua ragazza. E sarà proprio questo il motivo della loro rottura, con Clémentine che arriverà addirittura a tradire Emma con un uomo. Infine, quando diversi anni dopo la loro rottura andranno a incontrarsi nuovamente, con Clémentine sull'orlo della depressione, questa ha un attacco di cuore e muore, lasciando in eredità ad Emma i suoi diari, i quali ci accompagnano sin dall'inizio del graphic novel come voce narrante.

Il film.
La protagonista qui è Adèle, una ragazza di 15 anni che riscopre la sua omosessualità quando fa la conoscenza di Emma, una bellissima ragazza dai capelli blu poco più grande di lei, incrociandola per strada prima per poi re-incontrarla in un night poco tempo dopo. La relazione che lega i due si basa palesemente su un'intesa sessuale molto forte, ma al di fuori delle lenzuola, Emma e Adèle sono due persone completamente opposte, a partire dal loro ceto sociale di provenienza. Il loro rapporto è vissuto quindi in maniera molto fredda, arrivati ad un certo punto della loro vita, e sarà proprio per questa freddezza che Adèle, spinta dalla solitudine, arriverà a tradire Emma con un uomo. Una volta rotto il loro rapporto, le due si incontreranno nuovamente ma capiranno entrambe che il loro rapporto si basava solamente sul sesso e prenderanno strade differenti.

Le notevoli differenze.
Le due opere, oltre alle notevoli differenze riportate già nella trama, si distinguono fondamentalmente dal messaggio che questi vogliono trasmettere. Il film, sostanzialmente parla di un amore che va al di là di una semplice concezione etero/omosessuale, figurando la protagonista Adèle come una ragazza insicura sulla propria sessualità, ma palesemente bisessuale, mentre il graphic novel parla della condizione di una ragazza, in questo caso Clémentine, che non riesce a vivere a pieno la propria sessualità perché condizionata dalle etichette sociali e dai pregiudizi della gente. Se Clémentine, quindi, non riesce ad accettare la sua omosessualità per colpa del mondo che la circonda, Adèle non trova spazio nel mondo perché è lei stessa a non riuscire a definirsi. Sono molto pesanti, quindi, le differenze che Julie Maroh e Abdellatif Kechiche vanno a porre l'opera, che al di là di ogni forzato paragone che ne scaturisce - e le critiche giustissime mosse contro la pellicola - qualitativamente sia film che graphic novel si fanno forza e lasciando dei buchi reciprocamente.

Tenendo sempre a mente che quanto segue è semplicemente la mia personale opinione, ritengo che il graphic novel presenti un pesante buco narrativo che manda all'aria praticamente quanto ben fatto sin dagli inizi. Mi spiego. Ne La vita di Adèle si vive la storia tra le due ragazze passo per passo, viene raccontato con attenzione la provenienza sociale delle due, mettendo in risalto le loro differenze, ma soprattutto viviamo il rapporto dall'inizio alla fine, con sì dei salti temporali ma sempre coerenti e lineari alla storia. Ne Il blu è un colore caldo, invece, il salto temporale è bello grosso, andiamo dai 17 ai 30 anni in una sola vignetta dove ciò che è accaduto in quell'arco di tempo è raffigurato in una sola tavola lasciando le spiegazioni ad un riassunto che definire sommario è dir poco. Che Clem sia divenuta un'insegnante lo si deve capire da una vignetta in cui lei è di spalle di fronte ad una lavagna e che questa abbia tradito Emma con un uomo lo si riconduce ad un dialogo. Ma il come ci si è arrivati non c'è. Perché Clémentine ha tradito Emma? Perché è insicura della sua sessualità, non si accetta per come è, questo è chiaro... ma c'è di più. E il film questo di più lo narra, spiega come il rapporto tra le due si sia raffreddato, come accade in ogni tipo di coppia, e di come Adèle tradisca Emma con un uomo perché si sentiva sola e trascurata. Questo passaggio, a mio dire, è fondamentale e lasciarlo da parte ha lasciato un buco non indifferente spezzando bruscamente un ritmo narrativo che fino a quella fatidica tavola era a dir poco perfetta.

Un altro punto a favore del film, inoltre, è il riuscire anche a dare un messaggio più chiaro sul significato del blu, il colore che ha colpito sia Clémentine che Adèle, andando a ricollegarlo alle opere di Picasso e dal significato che questo diede al colore per definire un determinato periodo della sua vita. Andando, quindi, a sommare questo e i numerosi elementi che vanno a definire le differenze tra le due protagoniste, La vita di Adèle guadagna qualche punto. Ma ne perde nel momento in cui va a stravolgere il significato della storia e il messaggio che lancia il graphic novel. Ciò che dovrebbe essere una storia d'amore, Kechiche lo trasforma in un film erotico, basato di più sulla sintonia sessuale. 
Solo l'amore può salvare questo mondo. Perché dovrei vergognarmi di amare?
In definitiva.
Ritengo che Il blu è un colore caldo sia un graphic novel forte, con un messaggio che riesce a farsi ascoltare. Non sono rimasto molto colpito dai disegni, tuttavia, i quali a tratti li ho trovati eccessivamente grotteschi soprattutto nelle espressioni, ma è un tratto comunque distintivo e va anche bene così com'è. La vita di Adèle, invece, non trova un riscontro negativo in quanto ritengo che sia molto più "lavorato" e di conseguenza dettagliato a livello narrativo nonostante abbia di contro il fatto che stravolga ciò che Il blu è un colore caldo è in realtà, trasformandolo in un mero film erotico. Che sia stato diretto da un uomo, infatti, si nota, in quanto le scene di sesso sono anche fin troppo lunghe, come per soddisfare un pubblico maschile, lasciando proprio in disparte l'elemento romantico che avrebbe dovuto essere la forza principale a muovere la storia, ma tant'è. Non credo sia giusto, comunque, gettar via la pellicola (che ha comunque vinto la Palma d'Oro) assecondando i pareri pesantemente contrari - arrivati anche da Jule Maroh stessa -, ritengo che graphic novel e film siano due opere di una certa importanza, con due significati differenti ma belli se presi da sé. Consigliato.

venerdì 16 ottobre 2015



È stato uno dei fumetti più attesi in Italia negli ultimi periodi.
Personalmente, non ne conoscevo nemmeno l'esistenza, eppure Sunstone è un fumetto che ha goduto di un'incredibile fama prima come web-comics e poi come fumetto vero e proprio negli Stati Uniti. Scritto e disegnato da Stjepan Šejić e sua moglie Lisa Luksic, Sunstone è a tutti gli effetti un fumetto erotico ma anche romantico. Parla di BDSM ma anche di amore. Sembra qualcosa atta ad attirare esclusivamente lettori e lettrici dall'ormone attivo ma si presenta ben più di un fumetto per "pervertiti". Ho notato la pubblicità che se ne è fatta nel web alla pubblicazione in Italia dalla Panini e ho voluto leggerlo semplicemente per curiosità, visto il prezzo relativamente basso, partendo però con i piedi di piombo e ora sono qui, a parlarne, perché credo proprio che quest'opera meriti un po' d'attenzione.

La storia di base è semplice. Ally e Lisa sono due ragazze con la passione del BDSM, ma sono alle prime armi e non hanno mai avuto modo di sperimentarlo sul campo. Le due si conoscono in una chat, praticano sesso virtuale anche via webcam fin quando non decidono di incontrarsi. Le due, imbarazzatissime, scoprono di avere la stessa chimica trovata nel virtuale anche dopo essersi conosciute di persona se non addirittura più intensa. Infatti, basterà poco tempo che le due scopriranno di provare un sentimento ben più forte del sesso e del gioco a cui prendono parte.

Quando ho cominciato a sfogliare le pagine di Sunstone ammetto di provare un leggero imbarazzo verso me stesso. Una storia d'amore lesbo, okay, e 50 Sfumature di Grigio ci ha insegnato che bisogna stare alla larga dalle storie romantiche a tematica BDSM, in quanto fin troppo romanzate e destinate ad un pubblico adolescenziale. Non me ne vogliano i/le fan di 50 SdG, ho difeso quel film da ogni tipo di commento ignorante riconoscendo la capacità di riuscire a toccare una tematica fino ad oggi considerata un tabù; ciò non toglie, che quell'opera è 1) scritta male e 2) troppo romanzata (e qui mi si perdoni la ripetizione). Sunstone, a sua volta, è sì analoga alle 50 Sfumature ma tratta l'argomento in una maniera totalmente differente, con più naturalezza e un approccio decisamente più leggero. C'è sì il contorno da romanzo rosa un po' tirato con una psicologia dei personaggi un po' spicciola e frivola, ma l'indifferenza con cui l'argomento viene trattato è ciò che fa la differenza. L'accuratezza nel descrivere cosa sia davvero il BDSM, specificare come non sia una pratica da pervertiti e che si basa principalmente sulla fiducia e sul rispetto reciproco e, soprattutto, la capacità di far trasmettere questo messaggio utilizzando paragoni così semplici e che sono facilmente accettabili dalla nostra società moderna, come paragonare il mondo del BDSM ad un MMO, affiancare il sesso a qualcosa di nerd. Naturalezza, questa mi ha colpito maggiormente. Le due protagoniste, che rispecchiano un po' gli stereotipi geek e nerd, hanno un ruolo fondamentale nella trasmissione stessa del messaggio.

In definitiva, tutto ciò che posso dire di Sunstone è che è tutto sommato un fumetto all'apparenza frivolo, leggero, ma con una forte tematica che riesce a stare in piedi per conto suo. I disegni sono poi la parte forte di tutta l'opera, comprese le scene di nudo che sono sì complete ma mai volgari. L'espressività delle protagoniste sono sempre messe in risalto, sottolineando appunto l'accuratezza con cui l'intero fumetto è stato concepito. Non un semplice fumetto erotico con una parentesi da romanzo rosa, ma qualcosa di trascinante e che ha la forza tale di elasticizzare le menti più bigotte, con il lavoro di Šejić che, ancora una volta, risulta ben curato, genuino e simpatico.


lunedì 12 ottobre 2015



E sono già alla seconda parte della saga di White Trash Zombie.
La saga scritta da Diana Rowland è iniziata con My Life as a White Trash Zombie, di cui ho già avuto modo di parlarne precedentemente, e dopo aver riscontrato un discreto successo, si è protratta per altri tre capitoli. Quello di cui andrò a parlare quest'oggi è per l'appunto Even White Trash Zombies Get the Blues, titolo che richiama una serie di strisce a fumetti molto popolari agli inizi degli anni '90, Even white boys get the blues e traducibile come Anche "i white trash zombie" vanno in depressione - traduzione sommaria, il termine white trash lo abbiamo già analizzato nella recensione precedente ed è usato per identificare un certo basso ceto sociale.

E il titolo segna un interessante sviluppo, in questo secondo capitolo che vede ancora come protagonista Angel Crawford, ragazza-zombie poco più di vent'anni che lavora in un obitorio, ottima copertura per procurarsi i cervelli, suo alimento fondamentale per mantenersi umana... o almeno per quel poco che potrebbe sembrare. Attenzione agli spoiler, se avete intenzione di leggere il primo libro se ancora non lo avete fatto.

Even White Trash Zombies Get the Blues inizia poche settimane dopo la conclusione di My Life as a White Trash Zombie. Scampato il pericolo del cacciatore di zombie Ed, partner e migliore amico del neo-fidanzato di Angel Marcus, la nostra protagonista si ritrova coinvolta sin dagli inizi con un nuovo caso tra le mani: uno zombie di loro conoscenza viene ritrovato morto e Angel si ritrova ad indagare completamente da sola in un caso in cui nessuno vuole venir coinvolto. Né gli amici dell'obitorio, che reputano la sua storia troppo assurda, né il suo fidanzato-partner Marcus e dello zio Pietro Ivanov (entrambi zombie). Angel con l'andare avanti della storia si ritroverà ad affrontare quella che sembra essere una vera e propria mafia zombie, ma avrà anche vedersela con i suoi problemi personali derivati dalla sua precedente vita incasinata che, sebbene lei abbia intenzione di sistemarla, gli errori del passato continuano a tormentarla. Non mancano quindi problemi interpersonali infine, rendendo appunto la vita di Angel più che difficile, ma saranno proprio questi problemi a rendere Angel una ragazza più forte e indipendente che mai.

Considerazioni.
Questa seconda parte l'ho trovata avvincente tanto quanto lo è stata la prima. Il tutto è ancora scritto in prima persona, permettendo un collegamento diretto con la personalità di Angel, la protagonista assoluta, senza lasciar da parte dubbi e insicurezze, riuscendo a farci entrare in contatto con lei esplorandone punti di forza e debolezze. Encomiabile ancora una volta, quindi, il lavoro fatto dalla Rowland, che riesce a dare ancora più spessore ad un personaggio che, se pur di poco, è mutato di poco a poco. La storia scorre abbastanza bene, ha dei ritmi molto veloci e lascia parecchi buchi che però vanno subito a richiudersi anche se in maniera repentina. Ed è proprio qui che secondo me la scrittura di Rowland va un po' a perdersi. O meglio, la maniera repentina con cui conclude "senza concludere" va anche bene visto che la saga ha altri due capitoli a disposizione, il problema è il modo. Diana Rowland ci butta dentro troppo buonismo. Descrive la vita di Angel come piena di merda (parole sue!) e, per indicarne il cambiamento in positivo, utilizza un buonismo così finto da risultare fastidioso. Angel impara che le persone attorno a lei ci tengono, fin qui va anche bene, ma non fino a toccare il ridicolo. Queste piccole parti, come il finale per l'appunto, mi hanno lasciato un po' indifferente, ma questo è un semplice parere personale, anche se credo potrebbe ritrovare parecchi riscontri.

In definitiva, Even White Trash Zombie Get the Blues si mantiene sugli stessi standard del primo capitolo, anche se qui il tono da urban fantasy si fa sentire maggiormente dal momento in cui viene plasmato il sottomondo degli zombie, solamente accennato nel primo capitolo. L'elemento horror viene trasformato in fantasy, quindi, mentre quelli drammatici e thriller fanno da contorno all'intera storia dove però, a differenza del primo libro, assumono quei toni adolescenziali da cui sfuggivo. Una lettura ugualmente adatta ad ogni età, leggerino e accattivante. Eliminando il fastidioso buonismo, è una saga che vorrò assolutamente concludere. Ci ritroviamo sicuramente tra queste pagine con White Trash Zombie Apocalypse, quindi - ma con una dovuta pausa di almeno un mesetto (o anche più) per dar spazio ad altri libri che ho ancora da parte.

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La saga incentrata su Angel Crawford di Diana Rowland vede al momento quattro libri, ma non è una pubblicazione italiana bensì esclusivamente americana, quindi è disponibile solo in lingua originale che potete trovare o su Amazon oppure sul sito della Rowland, dove inoltre potete trovare il link per ascoltare il libro su Audible, nel caso vi stanchiate troppo a leggere.

lunedì 5 ottobre 2015



Inauguro con una quadrupla recensione questa "rubrica" dedicata a Bruno Mattei.
Per chi non lo sapesse, Bruno Mattei è un regista - anzi, "regista" - italiano ben noto per la sua voglia di riciclaggio o meglio a dire furti. Se quello del riciclaggio di materiale girato ma mai utilizzato in altre pellicole, anche di maggior successo, era un'operazione molto in voga dagli anni '50 agli anni '70 (quando c'era il boom del cinema d'exploitation), Bruno Mattei riprende quest'operazione nel modo più sbagliato possibile, andando a prendere pari passo scene già utilizzate in altri film, oltre al suo vizio di "omaggiare" altre pellicole che più che omaggi sono praticamente le stesse scene.

Colazione da Bruno è un titolo a casaccio, facendo un po' il verso a Colazione da Tiffany, saltato fuori dopo una domenica mattina passata a far colazione visionando Fauci Crudeli (dopo una nottata passata a guardare ben altri due film di Mattei) con un amico, a cui dedico questa intera rubrica. Bene, in attesa di un'altra serata trash, inizio con l'inaugurazione parlando di ben 4 film del Maestro Mattei: Virus, Fauci Crudeli, Mondo Cannibale e La Tomba.

Virus.
Anche noto col titolo L'inferno dei morti viventi, Virus percorre la falsariga dei film romeriani sugli zombie. Girato negli anni '80, con una tecnica abbastanza discreta, Mattei - in coppia con Claudio Fragrasso, altro personaggio discutibile della cinematografia italiana - omaggia sin dall'inizio i film di Romero riprendendo gli stessi personaggi protagonisti della sequenza iniziale di Dawn of the Dead (conosciuto in Italia come Zombi) se non addirittura la stessa sequenza, ma senza zombie. Questa squadra speciale viene poi spedita in Nuova Guinea, ma lo si capisce solamente leggendone la trama perché in realtà il film è caotico e non ha una vera e propria continuity lineare. Qui veniamo a conoscenza anche di improbabili giornalisti che, dopo essere stati aggrediti da degli zombie, si uniscono alla squadra e s'inoltrano - per qualche motivo oscuro, o forse no, ammetto di esser stato distratto - nella giungla infiltrandosi in una tribù cannibale. Totalmente a caso. Dopo venti minuti di scene di cannibali, con maschere a dir poco oscene e improponibili, contornate da immagini prese da documentari vari, vero marchio di fabbrica di Mattei, si ritorna agli zombie che fanno carneficina e il gruppo di superstiti tenta di sopravvivere.

Noia. Parecchia. Se da un lato vediamo degli effetti realizzati abbastanza decentemente, la storia di per sé non si riesce a reggere. Le immagini prese dai documentari stonano così tanto che fa venir voglia di cavarsi gli occhi, soprattutto quando tra una scena e l'altra vengono mostrate immagini inutili al rallentatore (!!) di scimmie che saltano di albero in albero e gabbiani che si tuffano in acqua. Ed elefanti. Senza contare che la pellicola dovrebbe ambientarsi in Nuova Guinea ma la scenografia ricorda più che altro il Sud America. Il pezzo forte, ad ogni modo, resta la scena all'interno della tribù indigena dove vediamo l'attrice protagonista gironzolare a caso e fare facce strane, un'attrice che sicuramente quando avrà girato la scena nemmeno sapeva cosa avrebbe dovuto guardare visto che il montaggio ha fatto il resto del lavoro con l'inserimento di riprese rubate a chissà quale documentario! Senza contare poi la mia scena preferita, quella che vedete nell'immagine sottostante. La protagonista, truccata come un'indigena locale per mischiarsi nella tribù (composta da indigeni grassi), viene accerchiata da alcuni di essi con indosso una maschera rituale. Ovviamente, anche queste immagini sono riprese da un documentario... e quel che vedete è un tentativo di riprodurre la stessa maschera cerimoniale. Io ho riso parecchio.


In conclusione, Virus è un film di merda coi fiocchi. Imperdibile se siete amanti del genere, come quasi tutti i film di Bruno Mattei. Un film che vanta di avere i Goblin sulla colonna sonora! Ovviamente, riciclando musiche utilizzate per Dawn of the Dead e Buio Omega, film dei quali ruba anche qualche scena, ovviamente. Bello, invitante quanto una merda spiaccicata sul marciapiede.

Fauci Crudeli.
Cruel Jaws, invece, è del 1995 ed è così brutto e noioso che verrebbe voglia di andare al mare e farsi mangiare vivo da uno squalo. Riprendendo la stessa identica trama, imitandone anche alcune scene, de Lo squalo di Steven Spielberg, Fauci Crudeli è così brutto che alla sua uscita non venne distrutto da critica e pubblico, ma semplicemente ignorato. Con una colonna sonora che fa un mixaggio dei più grandi successi di John Williams (la più evidente è Guerre Stellari), Mattei qui da il peggio di sé stesso, ricicla non soltanto immagini da documentari vari, tre film della saga Lo squalo, e due di Castellari e Joe D'Amato, ma anche le sue stesse scene. Sinceramente ho anche ben poco da dire. Il cast è osceno, alcune scene sono fin troppo ridicole, si ride del film ma molto raramente. Forse, l'unica cosa positiva è stata la capacità di realizzare una scenografia abbastanza in linea con le famose scene rubate, ma proprio per essere buoni, eh. Detto questo, passiamo avanti.

Mondo Cannibale.
E qui forse siamo al pezzo forte, in cui Mattei si beccherà parecchi insulti da parte mia.
Pace all'anima sua, per carità, ma Mondo Cannibale parte con dei presupposti a dir poco esilaranti e scade mostrando la sua totale incapacità non solo di fare cinema ma di capirlo! Questi presupposti, tanto per far chiarezza, è la nascita stessa del film in questione. Nel 2003, con lo stesso cast e troupe, girò Nella terra dei cannibali, ma siccome quando si trovò in fase di montaggio si accorse di avere materiale in più, decise di realizzare un altro film utilizzando le stesse. Come prendersi soldi facendo metà del lavoro, insomma.

Mondo Cannibale vorrebbe ricalcare la stessa trama di Cannibal Holocaust, con questa troupe televisiva spedita in Amazzonia per realizzare un documentario sulle tribù indigene locali. Con queste riprese degne del peggior film porno, realizzate con misere videocamere digitali, con scene che per l'appunto ricordano proprio un porno, Mattei confeziona un film ridicolo, con una trama incoerente come la caratterizzazione dei personaggi il tutto, ovviamente, inserendo qualche immagine da documentario, ma oramai sto diventando ripetitivo. Così come ripetitivo è Mattei che utilizza le stesse immagini del documentario utilizzate in Virus. Detto ciò, tanto per realizzare un quadro completo, le porcate che possiamo elencare sono: riprese di uno pseudo-telegiornale infilate MALE nel riquadro di una foto mossa di un televisore, personaggi che si scambiano i ruoli e cambiano personalità di volta in volta, dialoghi cretini e buttati a caso (es., durante una telefonata normalissima su come stia procedendo il lavoro, la protagonista ci tiene a ricordare dei giochini erotici fatti con il suo boss!). Infine, come se non bastasse il lavoro di merda realizzato da Mattei, gli attori ci tengono troppo a fare a loro volte del loro peggio, con espressioni facciali a dir poco oscene, reazioni emotive fin troppo esagerate e l'attrice principale, con il vizio di alzare il sopracciglio manco fosse Dwayne Johnson, che ha un modo di recitare degno di una pornostar.


Ma ho promesso degli insulti, e voglio mantenere a parola data.
Mattei ha tentato di omaggiare Cannibal Holocaust. Tralasciando che il suo omaggiare è alquanto discutibile, qualcuno avrebbe dovuto spiegargli che realizzare le stesse identiche scene non è omaggio ma poca fantasia, il problema più grave è stato il voler riproporre lo stesso messaggio di Deodato ma in maniera totalmente sbagliata! In Mondo Cannibale, insomma, traspare la totale incapacità di Mattei anche solo nel capire un film. Eppure non credo che ci voglia tanto a capire che in Cannibal Holocaust il messaggio era veicolato da una narrazione sì eccessiva, ma coerente, qui i personaggi si lasciano andare in barbarie in una maniera improvvisa e senza motivo. Quel messaggio, poi, viene espresso con una alquanto ridicola rottura della quarta parete. Mondo Cannibale, in definitiva, è proprio un film realizzato male, dove l'incapacità e l'ignoranza di Mattei è al suo apice... ed è proprio per questo che andrebbe visto. È un film di merda. Un film di merda che merita per farsi due risate guardando le esplosioni di rabbia insensate dei protagonisti. E del sopracciglio di Helena Wagner.

La Tomba.
Giungiamo quindi all'ultima parte con la vera perla.
Fa a botte con Mondo Cannibale per decretare il mio (fino a questo momento) film preferito di Mattei. In un mix di riprese digitali contornate da recitazioni oscene e tanto tanto blu, La Tomba si rifà alla falsariga de La Mummia, il celebre film con Brendan Fraser. Ovviamente, c'è bisogno di dire il modo di operare di Mattei? Documentari, La Mummia e L'armata delle Tenebre. Insieme a personaggi usciti fuori da Dal Tramonto all'Alba e Indiana Jones, che comunque Mattei dichiarò di esser volutamente ripresi volutamente.

Il film, che alla fine dei conti è un mix tra La Mummia e un documentario di Voyager, viene comunque considerato come uno dei migliori film mai realizzati da Mattei e su questo, forse per la prima volta mi trovo d'accordo con la critica. Indubbiamente, tralasciando ogni imperfezioni, tra tutta la merda prodotta dal Maestro, questa è sicuramente quella che merita di più. Ma non perché sia bello o ben realizzato. Le riprese ricordano (ancora) un film porno che s'incrocia con una soap opera argentina e gli attori, tutti inesperti e al loro primo ruolo, sono a dir poco imbarazzanti. Merita perché fa così pena da far ridere. Merita perché ha incongruenze atroci, perché esagera, perché qui Mattei si sforza a tal punto dall'inserire una scena di lotta pseudo-acrobatica senza ottenere nemmeno un risultato sufficiente. Merita per una scena che vorrebbe imitare, pardon, omaggiare La Mummia in cui vediamo i protagonisti, in un corridoio che dovrebbe essere stretto ma appare il contrario grazie ad una scenografia pessima, correre a destra e sinistra in continuazione. Errori che mettono in risalto l'amatorialità non solo del regista, ma dell'intera troupe. Nemmeno quando realizzavo film da ragazzino incappavo in errori così grossolani, eppure Mattei è abbastanza convinto che il suo cinema da omaggio funzioni. Ma soprattutto, merita perché risulta impossibile non ridere ad ogni singola scena! Come il graffio di un gatto che si trasforma in uno squarcio enorme che farebbe venir voglia di amputarsi una mano.

Come in tutti i film di Mattei, fa capolino l'esagerazione. Quegli elementi che potrebbero salvare di poco l'intero lavoro vengono messi fin troppo in risalto, come in questo caso gli occhi di Anna Marcello - notati da Bruno Mattei che li definì molto espressivi. Forse aveva ragione. Ma forse anche no. Fatto sta che c'è questa sacrosanta esagerazione che rovina ogni cosa, quella forzatura di qualcosa che dovrebbe essere bello ma che non lo è. Quel gusto dell'orrido, che nemmeno John Waters riuscirebbe a concepire, Mattei lo incarna.

Passi il voler realizzare film a basso costo per passione.
Passi l'usare attori inesperti e incapaci.
Passi anche l'utilizzo di telecamere digitali e la mancanza di fotografia e scenografia!

Tutto va bene, finché c'è passione.
E il Maestro Mattei di passione ne aveva.
Per quanto avrebbe seriamente dovuto smettere di fare cinema, perché non lo sapeva fare, noi continueremo ad amarlo, ad acquistare qualche DVD e io tornerò sicuramente con questa rubrica per parlare ancora del Maestro.

Scritta e non corretta.
Come ogni film di Bruno Mattei.

Dedico questa rubrica non tanto a Bruno Mattei, ma a Marcello, che con le sue visioni forzate di film di merda mi ha insegnato a riuscire ad apprezzare film che mai avrei apprezzato in passato, ricordandomi che, lì dove c'è gente che realizza film brutti al solo scopo di parodiare i blockbuster hollywoodiani, esiste quel lato del cinema che - per passione o scopo di lucro - tenta disperatamente di imitare il cinema divenendo una parodia di sé stessi, insegnandoci di riflesso che non conta quanto sia brutto o mal realizzato un film, ogni cosa - come nella vita - va apprezzato per le piccole cose.

domenica 4 ottobre 2015



Sequel. A volte riescono bene, altre volte potrebbero anche risparmiarseli.
E la seconda è quel che è accaduto con I spit on your grave 2, ma c'è anche una opzione che poche volte ha funzionato: un sequel fa schifo, quello subito dopo un po' meno. E I spit on your grave 3 è proprio questo caso. Con l'abbandono di Steven R. Monroe alla regia, subentra R.D. Braunstein che, richiamando la star del primo capitolo, Sarah Butler, propone finalmente un sequel degno di questo nome, non riproponendo la stessa meccanica del primo film come fatto col secondo capitolo, ma raccontando conseguenze e soprattutto trattando lo stesso argomento ma sotto una luce differente. Ma, come al solito, andiamo con calma.

Jennifer Hills, protagonista del primo film, dopo aver ucciso i suoi aggressori nel primo film, decide di andare avanti e cambiare identità. Ora si chiama Angela, ha un lavoro d'ufficio (non ben precisato), subisce le moleste - anche se pacate - avance del suo collega e partecipa ad una terapia di gruppo composta da donne che hanno subito violenze. Qui conosce Marla, una donna dal carattere forte con la quale stringe una forte amicizia visto che le due condividono lo stesso ideale estremo di giustizia. Quando Marla viene assassinata dal suo ex ragazzo, qualcosa scatta in Angela e decide di far giustizia a modo suo assassinando ogni artefice di violenza sulle donne che partecipano alla seduta.

Abbandonato per certi versi il genere rape and revenge, I spit on your grave 3 continua ad utilizzare l'espediente della violenza per far percepire il messaggio al pubblico, ma utilizzando canali differenti. I temi principali, oltre alla violenza e allo stupro, sono la giustizia e la vendetta, due concetti che si discostano notevolmente tra loro ma che ogni tanto si mescolano creando un tantino di confusione. E questa confusione è ben presente se non addirittura ben marcata durante la narrazione. Angela/Jennifer oramai non è più una vittima. Sì, è notevolmente scossa e la sua psiche oramai vacilla, ma il ruolo della vittima oramai non le si addice più; ora è uno strumento di vendetta, è la voce di quelle donne troppo spaventate per fare ciò che andrebbe fatto, ovvero reagire alla violenza con altrettanta violenza - se non addirittura maggiore. Ma al di là di ciò, quel che il film vuol mettere in risalto è proprio appunto la giustizia, la mancanza di fiducia nelle autorità e come il sistema burocratico abbia delle notevoli falle, al punto che addirittura gli stupratori - alla fine dei conti - riescono anche a farla franca. E il personaggio di Angela, sia chiaro, non è affatto positivo. Laddove lei reagisce a questa situazione deplorevole, finisce con l'esagerare a raffigurare l'esatto ritratto di una persona vittima di quel sistema che sta cercando di scuotere per far sì che venga ascoltata, per far sì che le cose cambiano. Ma a discapito, ne viene via la sua salute mentale, finendo con l'aggredire anche il povero collega che, lì dove cerca di avvicinarsi a lei in modo pacato e poco invadente, diventa anch'esso un elemento di disturbo alla sua stessa emancipazione. Angela/Jennifer diviene dunque un'ideale giusto ma distorto dal mondo corrotto in cui siamo costretti a vivere.

In definitiva.
I spit on your grave, il primo film e remake di Non violentate Jennifer, è divenuto sin da subito uno dei miei film preferiti. Molto forte, cruento e violento abbastanza da riuscire a esprimere lo sdegno e lo schifo che si prova pensando allo schifo che abbiamo attorno. Per quanto riguarda il secondo capitolo, invece, rimasi un po' deluso in quanto questi altro non era che lo stesso film ma con protagonisti differenti che sembrava cercasse più di scioccare che di raccontare una storia originale. Questo terzo film, invece, mi ha preso abbastanza bene. Al di là di alcune esagerazioni che si sarebbero potute facilmente evitare, ha degli elementi abbastanza solidi dalla sua: una trama differente dai primi due film, una continuità logica e un messaggio. Il terzo è fondamentale e credo anche che l'utilizzo di certi toni esagerati giustifichi il fine al cui il film cerca di arrivare.

Insomma, in parole povere: mi è piaciuto.
Non tantissimo quanto il primo, lo ammetto, ma in confronto al secondo è salito di livello. È tutto ciò che mi aspetto da un sequel fatto come si deve. Se non siete certi di voler vedere questo terzo capitolo perché il secondo vi ha detto poco o nulla, suggerisco di dare una chance a questa terza parte.


sabato 3 ottobre 2015



Metà anni '90. Il cinema parodistico spopola nelle sale.
E Jerry Calà è all'apice della sua carriera.
Cosa c'entra Jerry Calà con il cinema parodistico, ci chiediamo. Cosa c'entri Jerry Calà col cinema, invece, è tutt'altra storia. Chicken Park è il film di debutto alla reggia di Jerry Calà ed è la parodia del colossal Jurassic Park in quell'epoca uscito da poco nelle sale e di cui tutti noi conosciamo il successo. In linea generale, Chicken Park mantiene fede al cinema parodistico statunitense, quello consacrato con i vari David Zucker, Jim Abrahams e via discorrendo, inserendo qua e là anche altre parodie e/o citazioni ad altre pellicole di successo. Riuscendoci abbastanza male, c'è da dire. Prima però di proseguire con le considerazioni personali, un breve riassunto del film, che vede come protagonista proprio Jerry Calà (che qui non esclama mai "Libidine" :( sigh) e Demetra Hampton, che con piacevole stupore ho scoperto che si tratta di colei che diede il volto alla Valentina di Crepax nella serie televisiva. Non c'entrava niente, ma volevo scriverlo. Ritorniamo a Chicken Park.

Vladimiro è un tizio che se ne va in giro con un pollo il quale, dopo una lotta clandestina buttata lì a cazzo, viene rapito e spedito a Chicken Park, un luogo dove clonano... polli preistorici (vabbè). Vladimiro parte quindi alla ricerca del suo uccello e si ritrova, ancora a cazzo, a cena con la famiglia Addams per poi scappare, sempre a cazzo, dai polli giganti (che non hanno mai le stesse dimensioni). E poi si limona Demetra Hampton, che è quasi sicuramente il motivo per cui Jerry Calà ha girato questo film.

Ora, non starò qui a parlare di quanto sia un film veramente brutto.
Non starò qui a precisare che Jerry Calà, che ha girato completamente il film in lingua inglese, ha fatto girare la pellicola in tutto il mondo convinto che facesse sganasciare dalle risate. Voglio fare qualcosa che nessuno ha il coraggio di fare. Ne voglio parlare BENE. Perché, sì, il film tenta di strappare qualche risata forzatamente e non ci riesce, ha dei tempi comici troppo lunghi e ripetitivi che riescono a spezzare anche quei pochissimi momenti in cui fa realmente ridere, ma in linea generale - a mente più aperta - il film può essere rivalutato e visto sotto un'ottica più positiva. Iniziamo parlando appunto della sua comicità. Tralasciando i già citati momenti troppo lunghi, si tratta comunque di un umorismo raffinato, se non di denuncia è quasi come un rimarcare delle ovvietà ridicolizzandone il concetto. I semafori buttati in mezzo alla foresta è un chiaro esempio di come, appunto, siamo abituati in alcune regioni di Italia dove sono sistemati in luoghi improbabili, oppure - e qui andiamo sul sofisticato - la scena dell'arrivo in aeroporto, dove iniziano a partire una serie di riferimenti cinematografici che potrebbero simboleggiare l'esportazione del cinema statunitense in tutto il mondo.

Ed è partendo da qui che poi ci spostiamo sul punto forte dell'intera pellicola. Anche se il tutto viene gestito male, Jerry Calà tratta con sufficienza e superficialità numerosi temi proprio per ritrarre un quadro atto a dimostrare cosa lui pensi sia in realtà il cinema. E il messaggio è abbastanza chiaro, è un elemento richiamato a più riprese in quell'ora e mezza: il sesso. Il sesso lo ritroviamo non solo palesemente nelle gag più esplicite ma anche a livello subliminale. Già è rintracciabile nel contesto intero del film, il quale ha come antagonisti degli enormi uccelli (cock, in inglese, ma forse la cosa risulterebbe più ovvia in lingua americana); Jerry Calà stesso ha come unico scopo in tutto il film di ritrovare il suo uccello. Per non parlare del finale, dove il nostro eroe (!!) ha un faccia a faccia con un pollo gay; scena forse un tantino omofobica, ma atta a spiegare come funzioni il cinema. Il sesso è la chiave di tutto, ma per far più soldi bisogna dare di più, in quell'ambiente. E il tutto è collegabile al contesto "cinema" sin dalle prime fasi del film, in cui Calà spiega come il suo pollame, trattato con la massima cura e il massimo amore, si trasformi in un circolo di vizi (alcol, droghe, prostituzione!), così da spingerlo addirittura a viaggiare e adattarsi in un altro contesto dove però finisce alla stessa maniera. È quindi un'esortazione dello stesso Calà a guardare la vita (e il sesso stesso) in una maniera più gioiosa, senza farsi corrompere dalle belle donne vogliose e ninfomani.

Quindi è questo ciò che il film è riuscito a trasmettermi.
Peccato, però, che tutto finisca nel cesso per colpa di una regia veramente fatta male e una sceneggiatura che, sebbene abbia dei punti di forza, scade particolarmente per il semplice fatto che è un'accozzaglia di gag e non una storia lineare, un po' come accade con i più recenti Scary Movie. Insomma, Chicken Park non lo ritengo affatto da buttare. Un film con un messaggio genuino, forse un po' ignorante sotto alcuni aspetti, lanciato anche senza un briciolo di arroganza (come Greggio con Box Office). E se aveste visto il film e, leggendo queste righe, aveste voglia di linciarmi, vi ricordo che quando vi lasciate con il vostro/a ragazzo/a non ritenete mai buttato il tempo passato con questi, anche se si comporta di merda, conserverete dentro di voi quel lato buono. E questo è Chicken Park: un ex incapace che ha cercato di dare il meglio di sé stesso fallendo.

Clamorosamente.

sabato 26 settembre 2015


Pensavo fosse un remake di Cannibal Holocaust.
Ma in realtà si tratta più di un omaggio alla pellicola che scandalizzò gli anni '80. The Green Inferno, il cui titolo si rifà proprio all'opera di Ruggero Deodato, ma più nello specifico una sorta di omaggio proprio al cinema (italiano!) di genere; scritto e diretto da Eli Roth, maestro moderno dello splatter, il film risale al 2013 ma solo quest'anno ha visto la luce nei cinema mondiali. Etichettato come uno dei film più disgustosi e malati di sempre, andiamo a scoprire perché in realtà tutto ciò sia, come ci si aspettava, una trovata pubblicitaria.

The Green Inferno vede come protagonisti una serie di attivisti naturalisti che partono in Amazzonia per contrastare l'abbattimento di una foresta che metterebbe a rischio non solo un patrimonio naturale non indifferente ma intere tribù indigene locali. La protagonista, Justine, è un'ingenua idealista figlia di un rappresentante di spicco dell'ONU e come giusto che sia in ogni film horror che si rispetti, è proprio quella a subire le angherie peggiori, soprattutto da parte degli altri membri del gruppo, i quali sfruttano la sua posizione per garantirsi una via di fuga sicura una volta trovatisi faccia a faccia con la milizia. Una volta compiuta la loro missione, ovvero protestando riprendendo con un cellulare le azioni illegali di disboscamento, il gruppo fa per tornarsene a casa ma il loro aereo viene manomesso e precipita nel bel mezzo della foresta Amazzonica, finendo subito prigionieri di una delle tribù locali - cannibali, per l'appunto. Ed è qui che il film entra nel vivo, con i protagonisti che cercano una via di fuga per sfuggire alle terribili pratiche cannibali degli indigeni. E sta a voi indovinare chi sopravvive, alla fine.

Come si può evincere, la trama ha ben poco a che vedere con Cannibal Holocaust, con questa che si discosta  pesantemente, mantenendone alcuni tratti similari che risultano più un richiamo, un omaggio, piuttosto che un rifacimento. Ciò che comunque Eli Roth cerca di fare, come in ogni suo film, è trasmettere un senso di disagio attraverso scene splatter comunque realizzate perfettamente, misto ad un irriverente senso dell'humour fuori luogo e sopra le righe, richiamando il genere d'exploitation e qui è proprio chiaro l'omaggio che Roth fa per l'appunto al cinema di genere. Dialoghi approssimativi, scene di un umorismo quasi ridicolo, prime fasi del film che sembrano provenire da una soap opera argentina... e tutto questo è assolutamente voluto. The Green Inferno è più un film per amanti del genere, per intenditori per così dire, che in sostanza ha ben poco oltre al fattore disturbante che comunque è incessante. L'intero film, in linea di massima, trasmette soltanto disagio, rappresenta dei personaggi un po' anonimi che si muovono attraverso una storia che è, a mio avviso, incentrata sull'ipocrisia del genere umano. Ipocrisia manifestata sotto numerosi aspetti, la quale arriva al culmine nel finale stesso dove l'eroe di turno si fa forza proprio con questa ipocrisia per mandare avanti i propri ideali. Una critica c'è, di fondo. Ed è una critica sul buonismo cui le persone continuano ad appigliarsi. Quest'aspetto, insieme a trucco ed effetti speciali curati da Greg Nicotero (eccellente il trucco dei cannibali, specialmente il capo tribù), salvano in gran parte l'intero film, perché nel complesso si tratta comunque di qualcosa che lascia un po' con l'amaro in bocca, un film con dell'enorme potenziale che si lascia andare però in scene così sopra le righe che elevano il film più su un valore trash che qualitativo in generale.


In definitiva, valuto The Green Inferno un film meritevole, sotto alcuni aspetti. Potenzialità massime, una cura verso gli effetti visivi veramente eccellenti - sotto gli occhi del pubblico di massa, potrebbero stonare quelle scene comiche, che spezzano quel tono disturbante che tutta questa pubblicità gli ha creato... ma non dimentichiamoci che si tratta di Eli Roth e sono proprio elementi come cannibali strafatti, segaioli e scoreggioni a rendere il tutto disturbante e fastidioso. Consigliato ma suggerisco di vederlo con ben poche aspettative, se lo si va a guardare con la speranza di trovare un film innovativo o disturbante sotto l'aspetto dell'horror. Al di là delle (poche) scene sanguinolente presenti, le quali sono ad effetto e svolgono alla perfezione il loro ruolo, The Green Inferno è a tutti gli effetti un film comico. O almeno, io ho riso dall'inizio alla fine. Ciò che potrebbe far ridere me, potrebbe far incazzare chi ha delle aspettative ben più grosse.

giovedì 24 settembre 2015



E oggi voglio parlare di un film che ritengo ingiusto sia considerato immeritevole.
Contracted, film scritto e diretto da Eric England, è uno di quei film che, vedendone il trailer, mi ha colpito profondamente, mettendo in me una curiosità veramente forte e che, una volta visto, l'ho trovato così bello da cercare di reperire più informazioni possibili. Ma, con sommo dispiacere, ho visto trattare questo film in maniera veramente atroce. Critiche negative da parte di fan e critici di settore, pareri così assurdi che, devo dire la verità, mi hanno fatto pensare che chi lo abbia criticato o non abbia proprio visto il film o non lo abbia proprio capito! È per me un dovere morale, quindi, parlarne. E sì, premetto che potrei essere eccessivo in questa recensione, ma ricordiamoci comunque che ognuno ha i propri gusti e che sto facendo tutto ciò per il semplice motivo per dare credito ad un film che i critici hanno smontato ingiustamente.

Samantha (Najarra Townsend) è una ragazza ordinaria, con una difficoltà non indifferente per quanto riguarda il prendersi le proprie responsabilità. Ci viene presentata come una ragazza lesbica, ma già ad inizio film, triste perché la sua ragazza non sia venuta con lei alla festa, si lascia trasportare dalla sua migliore amica e inizia con l'ubriacarsi per poi finire a letto con uno sconosciuto, un certo B.J., il quale nella scena di apertura del film lo vediamo fare sesso con un cadavere con su un cartellino indicante materiale a rischio biologico. I giorni seguenti, Samantha comincia ad avvertire strani cambiamenti al proprio corpo, rendendosi conto di stare a poco a poco marcendo, come un cadavere. Totalmente ignara di cosa le stia accadendo, Sam inizia ad avere un ovvio crollo psicologico e chiunque le stia attorno comincia ad allontanarsi e a poco a poco comincia a rendersi conto che quel che sta diventando è, apparentemente, uno zombie.

Ora, il film è stato praticamente bocciato e criticato sotto numerosi aspetti. Ho letto recensioni e critiche assurde, addirittura attaccandosi al fatto che, secondo molti, questo dovrebbe essere un film incentrato sulla paura delle malattie sessualmente trasmissibili. Addirittura, viene etichettato come omofobico. Ma in realtà, ciò che mi ha trasmesso Contracted è tutt'altro. Il film ha sì l'elemento incentrato sulle malattie sessualmente trasmissibili, ma non ne è il fulcro principale, potrebbe esserlo se valutiamo la sceneggiatura al di là di ciò che si vede. Perché, se dovessimo dare un messaggio chiaro per andare fuori gli schemi, vediamo come Contracted parli in realtà dell'autodistruzione di una singola persona dopo aver commesso l'ennesima azione irresponsabile e di come questa, presa coscienza di ciò, cominci a far sgretolare ogni convinzione che ha attorno rendendosi conto di essere, alla fine, soltanto una persona vuota. Samantha è in realtà una persona confusa, una ragazza senza identità, incapace di prendersi delle semplici responsabilità come curare una semplice piantina. Una ragazza che, appena essersi vista il proprio mondo crollare, comincia a ricercare l'amore verso sé stessa attraverso gli altri, facendo loro a sua volta del male. E questa rappresentazione dell'odio verso sé stessi, della persona che ha preso coscienza di sé, che rappresentazione migliore può avere se non quella del mostro che si scaglia contro chiunque, presa da una furia cieca e oramai senza una vera e propria coscienza, ovvero uno zombie? Il tutto parte dalla malattia trasmessa a livello sessuale, ma l'intero film si sviluppa in altro. Sono in disaccordo, quindi, con chi crede che non ci sia una sceneggiatura sensata o chi ne condanna per un messaggio che va addirittura interpretato in una maniera differente. Contracted è sicuramente un film per appassionati, ma ha al suo interno una storia veramente impeccabile, anche il singolo fatto che non venga mai spiegato chi sia questo BJ e che cosa stia accadendo veramente a Samantha non è lasciato a caso, in quanto se vogliamo proprio rinfrescare la memoria, quasi nessun film di zombie ha mai spiegato quale sia veramente la causa dell'epidemia. E se l'hanno fatto, non è mai stato dato per certo.

Analizzandone il lato più "tecnico", un altro punto forte di Contracted è la cura per gli effetti visivi, la capacità di rendere credibile la putrefazione che sta avvenendo nella protagonista. Un film che ha una sua identità vera e propria, nonostante sia stata anche comparata a Thanatomorphose, film canadese uscito l'anno prima di Contracted (2012) il quale condivide semplicemente l'incipit, ovvero la putrefazione avvenuta in seguito ad un rapporto sessuale. Ma se, inspiegabilmente, Contracted è stato massacrato dalla critica negativa, Thanatomorphose viene descritto inspiegabilmente come un capolavoro, nonostante questo sia decisamente molto più lento e che non succeda un cazzo per gran parte del film. Per carità, non voglio screditarlo, Thanatomorphose merita sicuramente di esser visto ed è comunque un film totalmente diverso da Contracted, ma il livello di paragone è presente e questa è semplicemente un mio parere. Il film canadese avrebbe funzionato meglio se fosse stato un cortometraggio, Contracted si tira avanti per un'ora e mezza e funziona alla perfezione.

In definitiva, non credo sia necessario scrivere qualche riga sul mio parere personale, in quanto tutta questa "recensione" è incentrata su quanto mi sia piaciuto in particolar modo. Contracted è a suo modo un film di zombie, mantiene fede al concetto originale ed è sicuramente un film per appassionati del genere. Consigliato senza pensarci due volte, tenendo a mente, comunque, che potrei aver esaltato un po' troppo il tutto, ma oh, a me Contracted è piaciuto un sacco.


P.S.: qualche parola sul sequel.
Il 2015 ha visto la luce anche un sequel, Contracted - Phase II.
Il film, che vede l'esclusione totale England dal progetto lasciando soggetto e regia rispettivamente a Craig Walendziak e Josh Forbes, approfitta per dar luce ad alcuni fatti lasciati in sospeso nel primo film, cercando di dare alla pellicola una sorta di serialità, riprendendone addirittura il finale e muoversi da quel punto in poi. Il protagonista è Riley (Matt Mercer), personaggio già apparso nel primo film con un ruolo quasi irrilevante, e narra in linea di massima gli stessi avvenimenti di Contracted, riprendendo addirittura le stesse scene, stavolta però incentrandosi sommariamente su cosa realmente stia accadendo. Un film frenetico, che non si ferma mai e che a mio avviso non è ai livelli del primo. Se avete visto Contracted vi assicuro che della Fase 2 potete benissimo farne a meno.

lunedì 21 settembre 2015



Ed eccomi qui a parlare di nuovo di zombie!
D'altronde, da grande appassionato quale sono, cerco sempre di non perdermene nemmeno uno. E per mera curiosità, mi sono imbattuto in Dead Rising: Watchtower, film ispirato al medesimo videogioco della Capcom che vede all'attivo ben tre titoli su console. Dirò la verità, io a Dead Rising non ci ho giocato poi molto, non l'ho neanche mai finito, ergo non ho una conoscenza molto approfondita, quindi ho visionato questo film non con gli occhi di un fan della serie, ma come un appassionato di film di zombie e devo dire la verità... sono abbastanza sicuro che questo film sia all'altezza di ogni aspettativa, sia da parte dei fan del videogioco che dagli amanti degli zombie movie!

Gli avvenimenti di Dead Rising: Watchtower prendono piede nello stesso universo narrativo del videogioco, dove l'epidemia zombie si è oramai diffusa in gran parte del paese. Non tutto, però, è perduto e sul mercato è stato introdotto lo Zombrex, un particolare farmaco che va somministrato una volta al giorno a chi è stato morso da uno zombie per evitare che ci si trasformi. Il protagonista, Chase Carter, è un reporter incaricato ad effettuare un servizio in uno degli avamposti dove vengono accolte queste vittime ma verrà ben presto coinvolto in una serie di circostanze sospette che vedrà l'avamposto venir assalito dagli zombie. Affamato di scoop, Chase si affiancherà a Crystal, una ragazza conosciuta all'avamposto, e indagherà più a fondo sulla realtà dietro lo Zombrex affrontando - come ovvio che sia - orde di zombie, nel puro stile di Dead Rising ovvero improvvisando armi improbabili con qualsiasi oggetto capiti a tiro.

Il punto di forza di Dead Rising: Watchtower è stato il riuscire a creare un film che non va a crearsi un universo narrativo distaccato, come accade nella serie cinematografica di Resident Evil, bensì ci si affianca, ne fa riferimento e l'esempio è l'introduzione del personaggio di Frank West, primo protagonista della saga videoludica, il quale si lascia andare in numerose gag con i suoi improbabili consigli sulla sopravvivenza zombie durante gli intervalli dati al film che vengono posti come servizi del telegiornale, che è comunque parte attiva della storia stessa. Una scelta che direi azzeccata, una trovata a dir poco geniale, se contiamo che grazie a ciò si consente non solo di creare un film che ne ricalca un po' i contenuti ma allo stesso tempo propone anche una storia originale, una continuazione di quell'universo già creatosi e che, ricordiamolo, non è altro che un mero omaggio ai film di stampo Romeriamo che un vero e proprio videogioco classico sugli zombie. E Dead Rising: Watchtower tiene conto proprio di questo, non propone la solita solfa degli zombie indemoniati trasformati in infetti che corrono come pazzi, bensì gli zombie classici, quelli spaventosi che attaccano in orde infinite, aggiungendo però quella dose di splatter che tanti altri film han cercato di proporre e che la controparte ludica di Dead Rising era riuscita a riproporre e qui è presente alla stessa maniera senza eccessive esagerazioni. Un film divertente che non si limita ad essere soltanto un mix di violenza gratuita ma che è molto di più: ha una trama ben solida e funzionale. Non solo un film creato ad hoc per proporre scene di uccisioni divertenti (e qui ce ne sono molte), insomma.

Un'occhiata anche al trucco ben curato degli zombie.
Nella foto a destra, il regista Zach Lipovsky, alla sinistra un cameo delle gemelle Jen e Sylvia Soska

In definitiva, Dead Rising: Watchtower non è solo uno dei film ispirato ai videogiochi più belli di tutti, ma è uno dei film di zombie più belli che abbia mai visto. Sono abbastanza abituato, oramai, a vedere film che grosso modo son la stessa cosa. Qualche uccisione divertente, qualche sorriso strappato, ognuno con una propria particolarità ma sostanzialmente mai nulla di nuovo. E badiamo bene, a me piacciono quasi tutti, ma questo Dead Rising è un qualcosa di veramente unico. Un film di genere che è sì leggero ma non lascia dietro nessun aspetto della filmografia classica degli zombie, dai veri nemici identificati come il genere umano alla caratterizzazione vera e propria dei non-morti. Inoltre, ho trovato molto divertenti i siparietti con protagonista Frank West, interpretato da Rob Riggle, il quale riesce a dare maggior spessore all'identità stessa del film, per non parlare anche del tono spregiudicato che tutto il film assume con una totale assenza di morale da parte dei protagonisti, tutti egoisti dediti alla propria sopravvivenza senza doversi sacrificare per gli altri, zombie bambini assassinati in una maniera così naturale che risulta quasi una provocazione al cinema di massa che si ostina a non oltrepassare un determinato confine. Confine che Dead Rising oltrepassa alla grande. Se non è uno dei film più belli sugli zombie, giudicate voi stessi.


domenica 20 settembre 2015



In questo post mi cimenterò in qualcosa di arduo: quadrupla recensione!
Ciò di cui andrò a parlare è palese nel titolo: la trilogia Millennium di Stieg Larsson, ma non solo valutando i tre libri, bensì tutte le opere ricavatene, o quasi tutte, diciamo quelle che ho avuto tra le mani - la cui foto sotto. Millennium è composto principalmente da tre libri: Uomini che odiano le donneLa ragazza che giocava con il fuoco e La regina dei castelli di carta, in questa recensione andrò a parlare, tenendo sempre come punto di riferimento l'opera originaria:
  • della serie TV prodotta in Svezia con Noomi Rapace e Mikael Nyqvist;
  • del film americano diretto da David Fincher con Rooney Mara e Daniel Craig;
  • del primo volume a fumetti, edito in Francia, Uomini che odiano le donne di Runberg & Homs;
  • dell'intera trilogia a fumetti, edita negli USA dalla Vertigo, di Denise Mina.

L'opera di Stieg Larsson è indubbiamente una delle più famose e di successo di inizio millennio, anche se spesso e volentieri c'è chi la definisce un pelino sopravvalutata, bello sì ma non 'sto granché, insomma. Prima di andare alle mie conclusioni, uno sguardo all'intera trilogia non fa mai male, sia per chi vuol rinfrescarsi la memoria, sia per chi voglia provare a leggerla per intero. Le vicende dei tre romanzi si svolgono in Svezia e vede come protagonisti Mikael Blomkovist, noto giornalista di una rivista economica - Millennium, appunto - e Lisbeth Salander, misteriosa hacker affetta da Sindrome di Asperger e descritta principalmente con uno stile ribelle e alternativo, piena di piercing e tatuaggi. In America, Uomini che odiano le donne è divenuto The Girl with the Dragon Tattoo proprio per via di uno dei tatuaggi di Lisbeth, un enorme drago che ricopre tutta la schiena; questo titolo, inoltre, è stato dato anche per rimarcare il fatto che, a conti fatti, in Millennium sia Lisbeth la protagonista assoluta. Infatti, anche se in Uomini che odiano le donne la trama si sposta principalmente sul caso della scomparsa di Harriett Vanger a Hedestad, concentrandosi maggiormente su Blomkovist, la figura di Lisbeth è sin dagli inizi enigmatica e accentratrice, poco vien detto su di lei eppure è la figura che manda avanti l'intero romanzo. Di Lisbeth, quindi, in un primo momento si sa ben poco ma è nel secondo romanzo, La ragazza che giocava con il fuoco, dove si viene a conoscenza della sua intera storia e di conseguenza viene conosciuta più a fondo. Qui, a differenza di Uomini che odiano le donne, le vicende vengono mosse principalmente da Blomkovist e dalla sua vicenda sul trafficking, in un intreccio tra trame surreale ma abbastanza lineare, e io giudico La ragazza che giocava con il fuoco un libro di transizione in quanto, alla conclusione del romanzo si salta direttamente a La regina dei castelli di carta, dove ci si concentra ancora una volta sul personaggio di Lisbeth, costretta a vedersela con il suo passato.

La particolarità di Millennium non sta tanto nella costruzione delle storie e degli intrighi, ma quanto più sui personaggi. Se da una parte l'andamento delle storie può risultare un po' ai limiti dell'assurdo, la descrizione di ogni singolo personaggio è quasi impeccabile. Ciò che riuscì a fare Larsson con i suoi personaggi fu un lavoro veramente encomiabile, riuscendo a dare loro uno spessore ma soprattutto una storia e non soltanto applicandolo ai protagonisti, ma anche ai comprimari e alle piccole comparse. In linea di massima, non dico sia sbagliato concentrare l'intera trilogia sul personaggio di Lisbeth: lei resta comunque la protagonista assoluta e forse uno dei personaggi femminili più tosti dell'immaginario collettivo, ma toccherebbe anche soffermarsi su ogni singolo personaggio, anche quelli apparsi per pochi capitoli, notare come siano ben dettagliati per il ruolo che devono andare a ricoprire, senza mai sfigurare o soccombere al carisma dei protagonisti, per riuscire ad apprezzare veramente il lavoro di Larsson.

Però, nulla è tutto bello e devo dire che Larsson è più volte caduto in una spirale senza fine di assurdità lavorando troppo di fantasia. Se in Uomini che odiano le donne l'assurdo era un po' la chiave dell'intera narrazione, facendo agire i personaggi in una maniera abbastanza coerente con ciò che avverrebbe nella realtà, dalla seconda parte in poi si cade in una serie di forzate coincidenze che, per carità funzionano anche e possono trovare il loro senso, ma il numero di queste comincia a divenire abbastanza ridicolo. La ragazza che giocava con il fuoco lo considero il meno scorrevole della trilogia; interessante, sì, ha i suoi momenti in cui riesce a tenere col fiato sospeso, ma in generale è molto, molto lento. Lo stile di scrittura di Larsson, poi, è a tratti pesante. Troppo descrittivo non è proprio l'accusa che gli si potrebbe andare a rinfacciare (anche se sarebbe corretto!), ma ci sono decisamente troppi paragrafi o interi capitoli inutili. La sua ricerca di procedere sempre per due o tre trame parallele funziona, non risulta mai ripetitivo sebbene ci provi in tutti e tre libri, solo che è capace di soffermarsi su particolari inutili, come quali pensieri i protagonisti facciano sul tramezzino che stanno mangiando (davvero, eh) e cose così. Questa innata voglia di descrivere ogni singola azione dei personaggi è presente in tutti e tre libri, ma è nel secondo in cui se ne sente la pesantezza. Diverso il discorso, invece, è per il terzo capitolo, La regina dei castelli di carta il quale, devo dire, è riuscito a tenermi sulle spine dall'inizio alla fine in tutte le sottotrame presentate. Però, sostanzialmente, il finale è quasi amaro, dove da una parte fa chiudere in maniera quasi superficiale una questione lasciata in sospeso mentre, dall'altra, non si ha la benché minima idea di dove si voglia andare a parare con la relazione di Lisbeth e Mikael, il quale sarebbe dovuta essere approfondita, ma chissà cosa è contenuto in quegli appunti di Larsson per il quarto capitolo della saga, mai pubblicato vista la sua prematura scomparsa.

In linea di massima, ciò che penso della trilogia è che sia un'opera che meriti il successo che ha avuto. Non posso dire se sia sopravvalutato o meno, non leggo molti gialli, ciò che posso affermare con certezza, comunque, è che Uomini che odiano le donne è nettamente superiore le altre due opere. Il secondo libro è palloso e pesante per quanto sia bello, mentre il terzo è sì avvincente ma ai limiti dell'assurdo (persone che muoiono d'infarto davanti a tutti, sparatorie in pieno centro e di giorno, rapporti sessuali che avvengono con estrema facilità, e così via). Uomini che odiano le donne, invece, è un racconto completo. Ha un inizio e una fine, e per quanto tratti il personaggio di Lisbeth in maniera sommaria lasciandole un alone di mistero, è perfetto così com'è. Tra l'altro, è l'unico della trilogia che non ha un finale frettoloso. Ma al di là di ogni cosa, tralasciando ogni singola parte, l'intera opera di Millennium rimarrà nel mio cuore guardandola nel suo complesso con ciò che Larsson ha tentato di trasmettere. Al di là della non celata critica al sistema politico ed economico svedese, l'elemento principale che spicca è la sua totale disgregazione della mentalità sessista, cosa che io condivido a pieno essendo un argomento che mi sta molto a cuore. Larsson rilascia nell'intera opera un elemento fortemente anti-sessista, che può essere erroneamente considerato femminista ma, se si va ad analizzare ogni personaggio nella propria integrità si evince come ciò che tenta di fare è mettere Lisbeth e Mikael sullo stesso piano. L'elemento del sesso è presente praticamente in tutti e tre i libri e, come ho già detto, si arriva anche a far sesso con una facilità estrema, ma il tutto è coerente col pensiero dell'autore e di cosa lui stia cercando di far trasmettere, ossia una totale elasticità mentale, quasi a dirsi libera. Sia Blomkovist che Salander sono due personaggi che vanno a letto con chiunque gli capiti, senza farsi problemi. La relazione tra Erika e Mikael, poi, è un'altra espressione del pensiero di Larsson, rimarcata poi quando si va ad esplorare il rapporto della prima con il marito, consensuale al rapporto della moglie con Mikael e apertamente bisessuale. Larsson, in linea di massima, vuole dare da una parte una figura femminile forte e autonoma, ma dall'altra fare in modo di sottolineare che quello che può essere considerato un discorso preconfezionato di figura autorevole femminile è in realtà una linea di pensiero anti-sessista, atta a sgretolare ogni concetto banale e scontato pro e anti femminista e/o maschilista. Il titolo del primo libro, Uomini che odiano le donne, così come la tematica, non è appunto tirato in ballo a caso. Questo, come detto, è un argomento che mi sta molto a cuore ed è il motivo unico per cui reputo Millennium una delle mie opere preferite, passando sopra il fatto che possa essere a tratti assurdo e un po' troppo tirato per le lunghe.

Made in Sweden: la serie TV.
E qui, senza addentrarci troppo e dilungarci, possiamo prima presentare la serie e poi parlarne approfonditamente. Millennium è composta da 6 episodi, due per capitoli di 1 ora e mezza ciascuno e come elementi degni di nota sono: gli attori scelti per il ruolo dei protagonisti e l'inserimento nel cast di Paolo Roberto, vero pugile svedese di origini italiane inserito da Larsson nel romanzo e che nella serie interpreta proprio sé stesso. Il resto, fine. Davvero, non voglio proprio soffermarmi su ogni singolo episodio perché non ne uscirei più, ma non capisco come si faccia a considerare questa mini-serie un capolavoro. Approssimativo in una maniera assurda, recitazione pessima e dialoghi buttati un po' a caso. Chi segue il mio blog e in genere chi mi conosce, sa quanto non mi piaccia parlar male di qualcosa, ma davvero proprio non è riuscita a scendermi giù. Gli attori scelti per il ruolo di Mikael e Lisbeth, Mikael Nyqvist e Noomi Rapace riescono comunque a star su anche se non rispecchiano molto le loro controparti cartacee, soprattutto la Rapace che in abiti goth e truccata pesantemente è pressapoco ridicola e poco rispecchia la Lisbeth del romanzo. Nyqvist, invece, recita il suo ruolo in maniera abbastanza convincente, diciamo che "ce lo vedo bene nella parte", peccato che come ho già detto l'intera serie TV è molto approssimativa e i personaggi sono abbastanza anonimi e poco caratterizzati. Qui vale il solito discorso che ogni film tratto da romanzo non può essere fedele all'opera originale il ché ci sta eh, solo che essere fedeli a qualcosa di cartaceo è quasi improbabile. Diciamo che vedere la serie Millennium è per imparare a capire perché i romanzi si riadattano al massimo, con qualche evidente modifica e per forza di cose. Ciò che qui si cerca di fare è appunto riproporre esattamente ciò che accade nel romanzo... in sole tre ore. Il risultato è che La regina dei castelli di carta si manda avanti a fatica e distrugge sostanzialmente quanto fatto almeno discretamente nei primi due capitoli proprio perché, appunto, la gestione frettolosa dei primi due capitoli ha tenuto da parte alcuni elementi e ne ha tagliati il doppio nella terza parte. Terza parte che manda all'aria completamente la serie. Ma amen. Reputo la trilogia svedese un qualcosa di mediocre, sia in rapporto di comparazione con la trilogia letteraria che come sistema di valutazione globale. Una mini-serie che è proprio adatta alla TV, senza tante pretese, con un cast a tratti azzeccato e a tratti no.

David Fincher, Daniel Craig e Rooney Mara.
Ora, sarà anche vero che forse il mio parere è condizionato dal fatto che è stato Uomini che odiano le donne di Fincher ad avvicinarmi all'opera, ma se devo pensare in maniera obiettiva, non mi sarei mai avvicinato ai romanzi dopo aver visto la serie. Molto più fedele al romanzo, parlando più di ambientazioni che altro, degli attori decisamente più capaci e un ottimo regista. E qui credo proprio di non sapere cos'altro aggiungere. Daniel Craig è comunque azzeccato nella parte di Blomkovist, anche se perde quell'aria da bell'uomo che viene descritta nel romanzo, mentre Rooney Mara - e qui non me ne vogliano gli amanti della serie TV - è decisamente più azzeccata di Noomi Rapace. Di costituzione fisica, di aspetto, tutto. Rooney Mara riesce a trasformarsi completamente in Lisbeth Salander ed è molto più fedele la sua caratterizzazione nel film di Fincher che nella serie svedese. Certo, anche qui ci sono delle notevoli differenze rispetto al romanzo, ma se non altro, l'ambientazione, il messaggio del film in genere così come la rappresentazione di Lisbeth sono decisamente più riuscite. Un film il cui successo è meritatissimo ma che purtroppo non costituirà una trilogia a causa di divergenze creative, nonostante gli studi cinematografici abbiano speso una notevole cifra per finanziare il progetto.


Millennium, Vol. 1: Uomini che odiano le donne di Runberg & Homs.
Sopravvalutato o meno, Millennium ha comunque ricevuto un notevole successo, tale da dedicargli anche un fumetto. Quello di Runberg e Homs è francese, ed è stato pubblicato nel 2013 ma purtroppo in Italia è arrivata solo la prima parte, con un futuro incerto sugli altri due romanzi. Per quanto riguarda quest'opera, c'è ben poco da dire: dei disegni molto belli, una cura dei dettagli sia a livello grafico che di disegno veramente eccezionali e una storia che si regge, tiene fede all'opera originale e riesce anche ad inserire nuovi elementi, come la comparsa della sorella di Lisbeth che nei libri non c'è ma la si nomina solamente, che... beh, a me è piaciuta parecchio. Un'aggiunta che non stona perché nella sua interezza è un fumetto che veramente è ben fatto. Certo, i tratti possono sembrare un po' troppo caricaturali e forse c'è ben troppo colore, in quella che dovrebbe essere un'opera più cupa, ma in linea di massima funziona alla grande. Un fumetto di cui consiglio vivamente la lettura, se si è amati il libro, questo primo volume non delude le aspettative. Sottolineo, "se avete letto il libro", in quanto, per quanto sia bello, resta parecchio riassuntivo.

I fumetti della Vertigo, di Denise Mina.
Di questo ne parlai già tempo fa, esattamente qui. Ma se nella precedente recensione mi sono soffermato sul primo romanzo, diviso occasionalmente in due parti, oggi parlerò dell'opera completa. Come già detto nel precedente post, The Girl with the Dragon Tattoo si salva solamente per le copertine di Lee Bermejo e per i disegni in generale. Denise Mina, che comunque si è fatta notare in passato scrivendo alcune storie per Hellblazer, non riesce molto bene a trasporre il romanzo, sebbene abbia addirittura ben due volumi per farlo. Oltre a una pesante censura riguardante lo stupro della quale non trovo spiegazioni, la figura di Lisbeth qui è veramente estremizzata, ma non nel senso favorevole alla figura originaria del romanzo, ma in maniera stravolta. Il personaggio di Lisbeth, qui, viene fin troppo americanizzato; sì donna forte e autorevole ma niente lato fragile, niente umanizzazione. Onde evitare di ripetermi, ricopio qui quanto scritto nella recensione di qualche mese fa.
Se nel libro Lisbeth viene messa in risalto per il suo modo di fare taciturno e per il suo evidente problema di autismo, Denise Mina ha deciso che Lisbeth deve essere un personaggio autonomo e non convenzionale. In poche parole, prende il personaggio unico di Lisbeth e lo trasforma in un anti-eroe quasi conformista, con spiccate doti sociali e una psicologia indipendente che, levati, non ha bisogno di niente e di nessuno.
Il discorso, tuttavia, si discosta di parecchio nel secondo volume, The Girl who Played with Fire dove stranamente niente viene stravolto e in un unico volume si riesce a raccontare per filo e per segno tutti gli avvenimenti del romanzo (che in questo caso è, appunto La ragazza che giocava con il fuoco). Stesso discorso vale per la terza parte, The Girl who Kicked the Hornet's Nest, il quale riesce ad essere estremamente fedele all'opera originaria, anche se moltissime parti sono velocizzate e ridotte al minimo e alcuni passaggi vengono messi da parte o in altri casi addirittura semplificati.


In linea di massima, le trasposizioni della Vertigo ottengono dei pareri contrastanti. Con Lee Bermejo alle copertine e Leonardo Manco e Andrea Mutti ai disegni (rispettivamente, il primo per le parti di Lisbeth e il secondo di Blomkovist), l'opera dovrebbe avere come punto di forza il lato artistico, vale a dire i disegni e il discorso regge alla perfezione se prendiamo in esame le due parti de The Girl with the Dragon Tattoo. Le altre due parti, invece, subiscono un calo enorme. The Girl with the Dragon Tattoo ha una marcia in più rispetto ai suoi successori, e se The Girl who Played with Fire presenta una trasposizione più fedele con dei disegni inferiori - ma non poco curati, in The Girl who Kicked the Hornet's Nest il discorso va al rovescio, sì alla trasposizione fedele ma disegni poco elaborati, un'impaginazione poco fantasiosa, mancanza di quelle splash-page che in The Girl with the Dragon Tattoo vede il proprio punto di forza, insomma brutto da guardare, un fumetto decisamente mediocre. A questo andiamo ad aggiungerci che la storia ha ben poca fluidità, troppi dialoghi e troppe cose poco approfondite - ma ci sta, se valutiamo che La regina dei castelli di carta son ben 800 pagine di romanzo e il fumetto tenta di riassumere il tutto in poco più di 200. Il tutto sarebbe stato facilmente gestibile se ogni romanzo fosse stato diviso in due parti, ma è innegabile che nella trilogia Millennium è proprio Uomini che odiano le donne ad aver avuto maggior successo commerciale, e di conseguenza è proprio questa l'opera di maggior rilievo ma soprattutto qualità in tutta la trilogia - stravolgimento del personaggio di Lisbeth a parte che, ribadisco, a me non è piaciuto, ma credo che siano gusti, dopo tutto.

Conclusioni.
Ed eccoci qua. Una lunga recensione per un'opera che ho amato così tanto da voler completare una collezione che - tanto per il gusto di ripetermi - ho apprezzato veramente parecchio per il suo messaggio anti-sessista attraverso l'utilizzo di due personaggi al di sopra di ogni preconcetto. Uno un giornalista economico medio-borghese, l'altro una ragazza disadattata dal look un po' troppo sopra le righe e vistoso, ma che insieme rappresentano due facce di una stessa medaglia atte a rompere ogni pregiudizio o concetto preconfezionato. Un'opera che, sopravvalutata o meno, ha certamente una sua identità, che ha meritato almeno in parte il successo che ha avuto. Ritengo sia un peccato non riuscire ad avere ancora in Italia gli altri volumi a fumetti di Runberg e Homs (e io, purtroppo, il francese non lo so!), ma pazienza. Ci rivedremo tra queste pagine se mai in futuro vedranno la luce. O vedrà la luce qualche altra opera derivante Millennium.