sabato 26 settembre 2015


Pensavo fosse un remake di Cannibal Holocaust.
Ma in realtà si tratta più di un omaggio alla pellicola che scandalizzò gli anni '80. The Green Inferno, il cui titolo si rifà proprio all'opera di Ruggero Deodato, ma più nello specifico una sorta di omaggio proprio al cinema (italiano!) di genere; scritto e diretto da Eli Roth, maestro moderno dello splatter, il film risale al 2013 ma solo quest'anno ha visto la luce nei cinema mondiali. Etichettato come uno dei film più disgustosi e malati di sempre, andiamo a scoprire perché in realtà tutto ciò sia, come ci si aspettava, una trovata pubblicitaria.

The Green Inferno vede come protagonisti una serie di attivisti naturalisti che partono in Amazzonia per contrastare l'abbattimento di una foresta che metterebbe a rischio non solo un patrimonio naturale non indifferente ma intere tribù indigene locali. La protagonista, Justine, è un'ingenua idealista figlia di un rappresentante di spicco dell'ONU e come giusto che sia in ogni film horror che si rispetti, è proprio quella a subire le angherie peggiori, soprattutto da parte degli altri membri del gruppo, i quali sfruttano la sua posizione per garantirsi una via di fuga sicura una volta trovatisi faccia a faccia con la milizia. Una volta compiuta la loro missione, ovvero protestando riprendendo con un cellulare le azioni illegali di disboscamento, il gruppo fa per tornarsene a casa ma il loro aereo viene manomesso e precipita nel bel mezzo della foresta Amazzonica, finendo subito prigionieri di una delle tribù locali - cannibali, per l'appunto. Ed è qui che il film entra nel vivo, con i protagonisti che cercano una via di fuga per sfuggire alle terribili pratiche cannibali degli indigeni. E sta a voi indovinare chi sopravvive, alla fine.

Come si può evincere, la trama ha ben poco a che vedere con Cannibal Holocaust, con questa che si discosta  pesantemente, mantenendone alcuni tratti similari che risultano più un richiamo, un omaggio, piuttosto che un rifacimento. Ciò che comunque Eli Roth cerca di fare, come in ogni suo film, è trasmettere un senso di disagio attraverso scene splatter comunque realizzate perfettamente, misto ad un irriverente senso dell'humour fuori luogo e sopra le righe, richiamando il genere d'exploitation e qui è proprio chiaro l'omaggio che Roth fa per l'appunto al cinema di genere. Dialoghi approssimativi, scene di un umorismo quasi ridicolo, prime fasi del film che sembrano provenire da una soap opera argentina... e tutto questo è assolutamente voluto. The Green Inferno è più un film per amanti del genere, per intenditori per così dire, che in sostanza ha ben poco oltre al fattore disturbante che comunque è incessante. L'intero film, in linea di massima, trasmette soltanto disagio, rappresenta dei personaggi un po' anonimi che si muovono attraverso una storia che è, a mio avviso, incentrata sull'ipocrisia del genere umano. Ipocrisia manifestata sotto numerosi aspetti, la quale arriva al culmine nel finale stesso dove l'eroe di turno si fa forza proprio con questa ipocrisia per mandare avanti i propri ideali. Una critica c'è, di fondo. Ed è una critica sul buonismo cui le persone continuano ad appigliarsi. Quest'aspetto, insieme a trucco ed effetti speciali curati da Greg Nicotero (eccellente il trucco dei cannibali, specialmente il capo tribù), salvano in gran parte l'intero film, perché nel complesso si tratta comunque di qualcosa che lascia un po' con l'amaro in bocca, un film con dell'enorme potenziale che si lascia andare però in scene così sopra le righe che elevano il film più su un valore trash che qualitativo in generale.


In definitiva, valuto The Green Inferno un film meritevole, sotto alcuni aspetti. Potenzialità massime, una cura verso gli effetti visivi veramente eccellenti - sotto gli occhi del pubblico di massa, potrebbero stonare quelle scene comiche, che spezzano quel tono disturbante che tutta questa pubblicità gli ha creato... ma non dimentichiamoci che si tratta di Eli Roth e sono proprio elementi come cannibali strafatti, segaioli e scoreggioni a rendere il tutto disturbante e fastidioso. Consigliato ma suggerisco di vederlo con ben poche aspettative, se lo si va a guardare con la speranza di trovare un film innovativo o disturbante sotto l'aspetto dell'horror. Al di là delle (poche) scene sanguinolente presenti, le quali sono ad effetto e svolgono alla perfezione il loro ruolo, The Green Inferno è a tutti gli effetti un film comico. O almeno, io ho riso dall'inizio alla fine. Ciò che potrebbe far ridere me, potrebbe far incazzare chi ha delle aspettative ben più grosse.

giovedì 24 settembre 2015



E oggi voglio parlare di un film che ritengo ingiusto sia considerato immeritevole.
Contracted, film scritto e diretto da Eric England, è uno di quei film che, vedendone il trailer, mi ha colpito profondamente, mettendo in me una curiosità veramente forte e che, una volta visto, l'ho trovato così bello da cercare di reperire più informazioni possibili. Ma, con sommo dispiacere, ho visto trattare questo film in maniera veramente atroce. Critiche negative da parte di fan e critici di settore, pareri così assurdi che, devo dire la verità, mi hanno fatto pensare che chi lo abbia criticato o non abbia proprio visto il film o non lo abbia proprio capito! È per me un dovere morale, quindi, parlarne. E sì, premetto che potrei essere eccessivo in questa recensione, ma ricordiamoci comunque che ognuno ha i propri gusti e che sto facendo tutto ciò per il semplice motivo per dare credito ad un film che i critici hanno smontato ingiustamente.

Samantha (Najarra Townsend) è una ragazza ordinaria, con una difficoltà non indifferente per quanto riguarda il prendersi le proprie responsabilità. Ci viene presentata come una ragazza lesbica, ma già ad inizio film, triste perché la sua ragazza non sia venuta con lei alla festa, si lascia trasportare dalla sua migliore amica e inizia con l'ubriacarsi per poi finire a letto con uno sconosciuto, un certo B.J., il quale nella scena di apertura del film lo vediamo fare sesso con un cadavere con su un cartellino indicante materiale a rischio biologico. I giorni seguenti, Samantha comincia ad avvertire strani cambiamenti al proprio corpo, rendendosi conto di stare a poco a poco marcendo, come un cadavere. Totalmente ignara di cosa le stia accadendo, Sam inizia ad avere un ovvio crollo psicologico e chiunque le stia attorno comincia ad allontanarsi e a poco a poco comincia a rendersi conto che quel che sta diventando è, apparentemente, uno zombie.

Ora, il film è stato praticamente bocciato e criticato sotto numerosi aspetti. Ho letto recensioni e critiche assurde, addirittura attaccandosi al fatto che, secondo molti, questo dovrebbe essere un film incentrato sulla paura delle malattie sessualmente trasmissibili. Addirittura, viene etichettato come omofobico. Ma in realtà, ciò che mi ha trasmesso Contracted è tutt'altro. Il film ha sì l'elemento incentrato sulle malattie sessualmente trasmissibili, ma non ne è il fulcro principale, potrebbe esserlo se valutiamo la sceneggiatura al di là di ciò che si vede. Perché, se dovessimo dare un messaggio chiaro per andare fuori gli schemi, vediamo come Contracted parli in realtà dell'autodistruzione di una singola persona dopo aver commesso l'ennesima azione irresponsabile e di come questa, presa coscienza di ciò, cominci a far sgretolare ogni convinzione che ha attorno rendendosi conto di essere, alla fine, soltanto una persona vuota. Samantha è in realtà una persona confusa, una ragazza senza identità, incapace di prendersi delle semplici responsabilità come curare una semplice piantina. Una ragazza che, appena essersi vista il proprio mondo crollare, comincia a ricercare l'amore verso sé stessa attraverso gli altri, facendo loro a sua volta del male. E questa rappresentazione dell'odio verso sé stessi, della persona che ha preso coscienza di sé, che rappresentazione migliore può avere se non quella del mostro che si scaglia contro chiunque, presa da una furia cieca e oramai senza una vera e propria coscienza, ovvero uno zombie? Il tutto parte dalla malattia trasmessa a livello sessuale, ma l'intero film si sviluppa in altro. Sono in disaccordo, quindi, con chi crede che non ci sia una sceneggiatura sensata o chi ne condanna per un messaggio che va addirittura interpretato in una maniera differente. Contracted è sicuramente un film per appassionati, ma ha al suo interno una storia veramente impeccabile, anche il singolo fatto che non venga mai spiegato chi sia questo BJ e che cosa stia accadendo veramente a Samantha non è lasciato a caso, in quanto se vogliamo proprio rinfrescare la memoria, quasi nessun film di zombie ha mai spiegato quale sia veramente la causa dell'epidemia. E se l'hanno fatto, non è mai stato dato per certo.

Analizzandone il lato più "tecnico", un altro punto forte di Contracted è la cura per gli effetti visivi, la capacità di rendere credibile la putrefazione che sta avvenendo nella protagonista. Un film che ha una sua identità vera e propria, nonostante sia stata anche comparata a Thanatomorphose, film canadese uscito l'anno prima di Contracted (2012) il quale condivide semplicemente l'incipit, ovvero la putrefazione avvenuta in seguito ad un rapporto sessuale. Ma se, inspiegabilmente, Contracted è stato massacrato dalla critica negativa, Thanatomorphose viene descritto inspiegabilmente come un capolavoro, nonostante questo sia decisamente molto più lento e che non succeda un cazzo per gran parte del film. Per carità, non voglio screditarlo, Thanatomorphose merita sicuramente di esser visto ed è comunque un film totalmente diverso da Contracted, ma il livello di paragone è presente e questa è semplicemente un mio parere. Il film canadese avrebbe funzionato meglio se fosse stato un cortometraggio, Contracted si tira avanti per un'ora e mezza e funziona alla perfezione.

In definitiva, non credo sia necessario scrivere qualche riga sul mio parere personale, in quanto tutta questa "recensione" è incentrata su quanto mi sia piaciuto in particolar modo. Contracted è a suo modo un film di zombie, mantiene fede al concetto originale ed è sicuramente un film per appassionati del genere. Consigliato senza pensarci due volte, tenendo a mente, comunque, che potrei aver esaltato un po' troppo il tutto, ma oh, a me Contracted è piaciuto un sacco.


P.S.: qualche parola sul sequel.
Il 2015 ha visto la luce anche un sequel, Contracted - Phase II.
Il film, che vede l'esclusione totale England dal progetto lasciando soggetto e regia rispettivamente a Craig Walendziak e Josh Forbes, approfitta per dar luce ad alcuni fatti lasciati in sospeso nel primo film, cercando di dare alla pellicola una sorta di serialità, riprendendone addirittura il finale e muoversi da quel punto in poi. Il protagonista è Riley (Matt Mercer), personaggio già apparso nel primo film con un ruolo quasi irrilevante, e narra in linea di massima gli stessi avvenimenti di Contracted, riprendendo addirittura le stesse scene, stavolta però incentrandosi sommariamente su cosa realmente stia accadendo. Un film frenetico, che non si ferma mai e che a mio avviso non è ai livelli del primo. Se avete visto Contracted vi assicuro che della Fase 2 potete benissimo farne a meno.

lunedì 21 settembre 2015



Ed eccomi qui a parlare di nuovo di zombie!
D'altronde, da grande appassionato quale sono, cerco sempre di non perdermene nemmeno uno. E per mera curiosità, mi sono imbattuto in Dead Rising: Watchtower, film ispirato al medesimo videogioco della Capcom che vede all'attivo ben tre titoli su console. Dirò la verità, io a Dead Rising non ci ho giocato poi molto, non l'ho neanche mai finito, ergo non ho una conoscenza molto approfondita, quindi ho visionato questo film non con gli occhi di un fan della serie, ma come un appassionato di film di zombie e devo dire la verità... sono abbastanza sicuro che questo film sia all'altezza di ogni aspettativa, sia da parte dei fan del videogioco che dagli amanti degli zombie movie!

Gli avvenimenti di Dead Rising: Watchtower prendono piede nello stesso universo narrativo del videogioco, dove l'epidemia zombie si è oramai diffusa in gran parte del paese. Non tutto, però, è perduto e sul mercato è stato introdotto lo Zombrex, un particolare farmaco che va somministrato una volta al giorno a chi è stato morso da uno zombie per evitare che ci si trasformi. Il protagonista, Chase Carter, è un reporter incaricato ad effettuare un servizio in uno degli avamposti dove vengono accolte queste vittime ma verrà ben presto coinvolto in una serie di circostanze sospette che vedrà l'avamposto venir assalito dagli zombie. Affamato di scoop, Chase si affiancherà a Crystal, una ragazza conosciuta all'avamposto, e indagherà più a fondo sulla realtà dietro lo Zombrex affrontando - come ovvio che sia - orde di zombie, nel puro stile di Dead Rising ovvero improvvisando armi improbabili con qualsiasi oggetto capiti a tiro.

Il punto di forza di Dead Rising: Watchtower è stato il riuscire a creare un film che non va a crearsi un universo narrativo distaccato, come accade nella serie cinematografica di Resident Evil, bensì ci si affianca, ne fa riferimento e l'esempio è l'introduzione del personaggio di Frank West, primo protagonista della saga videoludica, il quale si lascia andare in numerose gag con i suoi improbabili consigli sulla sopravvivenza zombie durante gli intervalli dati al film che vengono posti come servizi del telegiornale, che è comunque parte attiva della storia stessa. Una scelta che direi azzeccata, una trovata a dir poco geniale, se contiamo che grazie a ciò si consente non solo di creare un film che ne ricalca un po' i contenuti ma allo stesso tempo propone anche una storia originale, una continuazione di quell'universo già creatosi e che, ricordiamolo, non è altro che un mero omaggio ai film di stampo Romeriamo che un vero e proprio videogioco classico sugli zombie. E Dead Rising: Watchtower tiene conto proprio di questo, non propone la solita solfa degli zombie indemoniati trasformati in infetti che corrono come pazzi, bensì gli zombie classici, quelli spaventosi che attaccano in orde infinite, aggiungendo però quella dose di splatter che tanti altri film han cercato di proporre e che la controparte ludica di Dead Rising era riuscita a riproporre e qui è presente alla stessa maniera senza eccessive esagerazioni. Un film divertente che non si limita ad essere soltanto un mix di violenza gratuita ma che è molto di più: ha una trama ben solida e funzionale. Non solo un film creato ad hoc per proporre scene di uccisioni divertenti (e qui ce ne sono molte), insomma.

Un'occhiata anche al trucco ben curato degli zombie.
Nella foto a destra, il regista Zach Lipovsky, alla sinistra un cameo delle gemelle Jen e Sylvia Soska

In definitiva, Dead Rising: Watchtower non è solo uno dei film ispirato ai videogiochi più belli di tutti, ma è uno dei film di zombie più belli che abbia mai visto. Sono abbastanza abituato, oramai, a vedere film che grosso modo son la stessa cosa. Qualche uccisione divertente, qualche sorriso strappato, ognuno con una propria particolarità ma sostanzialmente mai nulla di nuovo. E badiamo bene, a me piacciono quasi tutti, ma questo Dead Rising è un qualcosa di veramente unico. Un film di genere che è sì leggero ma non lascia dietro nessun aspetto della filmografia classica degli zombie, dai veri nemici identificati come il genere umano alla caratterizzazione vera e propria dei non-morti. Inoltre, ho trovato molto divertenti i siparietti con protagonista Frank West, interpretato da Rob Riggle, il quale riesce a dare maggior spessore all'identità stessa del film, per non parlare anche del tono spregiudicato che tutto il film assume con una totale assenza di morale da parte dei protagonisti, tutti egoisti dediti alla propria sopravvivenza senza doversi sacrificare per gli altri, zombie bambini assassinati in una maniera così naturale che risulta quasi una provocazione al cinema di massa che si ostina a non oltrepassare un determinato confine. Confine che Dead Rising oltrepassa alla grande. Se non è uno dei film più belli sugli zombie, giudicate voi stessi.


domenica 20 settembre 2015



In questo post mi cimenterò in qualcosa di arduo: quadrupla recensione!
Ciò di cui andrò a parlare è palese nel titolo: la trilogia Millennium di Stieg Larsson, ma non solo valutando i tre libri, bensì tutte le opere ricavatene, o quasi tutte, diciamo quelle che ho avuto tra le mani - la cui foto sotto. Millennium è composto principalmente da tre libri: Uomini che odiano le donneLa ragazza che giocava con il fuoco e La regina dei castelli di carta, in questa recensione andrò a parlare, tenendo sempre come punto di riferimento l'opera originaria:
  • della serie TV prodotta in Svezia con Noomi Rapace e Mikael Nyqvist;
  • del film americano diretto da David Fincher con Rooney Mara e Daniel Craig;
  • del primo volume a fumetti, edito in Francia, Uomini che odiano le donne di Runberg & Homs;
  • dell'intera trilogia a fumetti, edita negli USA dalla Vertigo, di Denise Mina.

L'opera di Stieg Larsson è indubbiamente una delle più famose e di successo di inizio millennio, anche se spesso e volentieri c'è chi la definisce un pelino sopravvalutata, bello sì ma non 'sto granché, insomma. Prima di andare alle mie conclusioni, uno sguardo all'intera trilogia non fa mai male, sia per chi vuol rinfrescarsi la memoria, sia per chi voglia provare a leggerla per intero. Le vicende dei tre romanzi si svolgono in Svezia e vede come protagonisti Mikael Blomkovist, noto giornalista di una rivista economica - Millennium, appunto - e Lisbeth Salander, misteriosa hacker affetta da Sindrome di Asperger e descritta principalmente con uno stile ribelle e alternativo, piena di piercing e tatuaggi. In America, Uomini che odiano le donne è divenuto The Girl with the Dragon Tattoo proprio per via di uno dei tatuaggi di Lisbeth, un enorme drago che ricopre tutta la schiena; questo titolo, inoltre, è stato dato anche per rimarcare il fatto che, a conti fatti, in Millennium sia Lisbeth la protagonista assoluta. Infatti, anche se in Uomini che odiano le donne la trama si sposta principalmente sul caso della scomparsa di Harriett Vanger a Hedestad, concentrandosi maggiormente su Blomkovist, la figura di Lisbeth è sin dagli inizi enigmatica e accentratrice, poco vien detto su di lei eppure è la figura che manda avanti l'intero romanzo. Di Lisbeth, quindi, in un primo momento si sa ben poco ma è nel secondo romanzo, La ragazza che giocava con il fuoco, dove si viene a conoscenza della sua intera storia e di conseguenza viene conosciuta più a fondo. Qui, a differenza di Uomini che odiano le donne, le vicende vengono mosse principalmente da Blomkovist e dalla sua vicenda sul trafficking, in un intreccio tra trame surreale ma abbastanza lineare, e io giudico La ragazza che giocava con il fuoco un libro di transizione in quanto, alla conclusione del romanzo si salta direttamente a La regina dei castelli di carta, dove ci si concentra ancora una volta sul personaggio di Lisbeth, costretta a vedersela con il suo passato.

La particolarità di Millennium non sta tanto nella costruzione delle storie e degli intrighi, ma quanto più sui personaggi. Se da una parte l'andamento delle storie può risultare un po' ai limiti dell'assurdo, la descrizione di ogni singolo personaggio è quasi impeccabile. Ciò che riuscì a fare Larsson con i suoi personaggi fu un lavoro veramente encomiabile, riuscendo a dare loro uno spessore ma soprattutto una storia e non soltanto applicandolo ai protagonisti, ma anche ai comprimari e alle piccole comparse. In linea di massima, non dico sia sbagliato concentrare l'intera trilogia sul personaggio di Lisbeth: lei resta comunque la protagonista assoluta e forse uno dei personaggi femminili più tosti dell'immaginario collettivo, ma toccherebbe anche soffermarsi su ogni singolo personaggio, anche quelli apparsi per pochi capitoli, notare come siano ben dettagliati per il ruolo che devono andare a ricoprire, senza mai sfigurare o soccombere al carisma dei protagonisti, per riuscire ad apprezzare veramente il lavoro di Larsson.

Però, nulla è tutto bello e devo dire che Larsson è più volte caduto in una spirale senza fine di assurdità lavorando troppo di fantasia. Se in Uomini che odiano le donne l'assurdo era un po' la chiave dell'intera narrazione, facendo agire i personaggi in una maniera abbastanza coerente con ciò che avverrebbe nella realtà, dalla seconda parte in poi si cade in una serie di forzate coincidenze che, per carità funzionano anche e possono trovare il loro senso, ma il numero di queste comincia a divenire abbastanza ridicolo. La ragazza che giocava con il fuoco lo considero il meno scorrevole della trilogia; interessante, sì, ha i suoi momenti in cui riesce a tenere col fiato sospeso, ma in generale è molto, molto lento. Lo stile di scrittura di Larsson, poi, è a tratti pesante. Troppo descrittivo non è proprio l'accusa che gli si potrebbe andare a rinfacciare (anche se sarebbe corretto!), ma ci sono decisamente troppi paragrafi o interi capitoli inutili. La sua ricerca di procedere sempre per due o tre trame parallele funziona, non risulta mai ripetitivo sebbene ci provi in tutti e tre libri, solo che è capace di soffermarsi su particolari inutili, come quali pensieri i protagonisti facciano sul tramezzino che stanno mangiando (davvero, eh) e cose così. Questa innata voglia di descrivere ogni singola azione dei personaggi è presente in tutti e tre libri, ma è nel secondo in cui se ne sente la pesantezza. Diverso il discorso, invece, è per il terzo capitolo, La regina dei castelli di carta il quale, devo dire, è riuscito a tenermi sulle spine dall'inizio alla fine in tutte le sottotrame presentate. Però, sostanzialmente, il finale è quasi amaro, dove da una parte fa chiudere in maniera quasi superficiale una questione lasciata in sospeso mentre, dall'altra, non si ha la benché minima idea di dove si voglia andare a parare con la relazione di Lisbeth e Mikael, il quale sarebbe dovuta essere approfondita, ma chissà cosa è contenuto in quegli appunti di Larsson per il quarto capitolo della saga, mai pubblicato vista la sua prematura scomparsa.

In linea di massima, ciò che penso della trilogia è che sia un'opera che meriti il successo che ha avuto. Non posso dire se sia sopravvalutato o meno, non leggo molti gialli, ciò che posso affermare con certezza, comunque, è che Uomini che odiano le donne è nettamente superiore le altre due opere. Il secondo libro è palloso e pesante per quanto sia bello, mentre il terzo è sì avvincente ma ai limiti dell'assurdo (persone che muoiono d'infarto davanti a tutti, sparatorie in pieno centro e di giorno, rapporti sessuali che avvengono con estrema facilità, e così via). Uomini che odiano le donne, invece, è un racconto completo. Ha un inizio e una fine, e per quanto tratti il personaggio di Lisbeth in maniera sommaria lasciandole un alone di mistero, è perfetto così com'è. Tra l'altro, è l'unico della trilogia che non ha un finale frettoloso. Ma al di là di ogni cosa, tralasciando ogni singola parte, l'intera opera di Millennium rimarrà nel mio cuore guardandola nel suo complesso con ciò che Larsson ha tentato di trasmettere. Al di là della non celata critica al sistema politico ed economico svedese, l'elemento principale che spicca è la sua totale disgregazione della mentalità sessista, cosa che io condivido a pieno essendo un argomento che mi sta molto a cuore. Larsson rilascia nell'intera opera un elemento fortemente anti-sessista, che può essere erroneamente considerato femminista ma, se si va ad analizzare ogni personaggio nella propria integrità si evince come ciò che tenta di fare è mettere Lisbeth e Mikael sullo stesso piano. L'elemento del sesso è presente praticamente in tutti e tre i libri e, come ho già detto, si arriva anche a far sesso con una facilità estrema, ma il tutto è coerente col pensiero dell'autore e di cosa lui stia cercando di far trasmettere, ossia una totale elasticità mentale, quasi a dirsi libera. Sia Blomkovist che Salander sono due personaggi che vanno a letto con chiunque gli capiti, senza farsi problemi. La relazione tra Erika e Mikael, poi, è un'altra espressione del pensiero di Larsson, rimarcata poi quando si va ad esplorare il rapporto della prima con il marito, consensuale al rapporto della moglie con Mikael e apertamente bisessuale. Larsson, in linea di massima, vuole dare da una parte una figura femminile forte e autonoma, ma dall'altra fare in modo di sottolineare che quello che può essere considerato un discorso preconfezionato di figura autorevole femminile è in realtà una linea di pensiero anti-sessista, atta a sgretolare ogni concetto banale e scontato pro e anti femminista e/o maschilista. Il titolo del primo libro, Uomini che odiano le donne, così come la tematica, non è appunto tirato in ballo a caso. Questo, come detto, è un argomento che mi sta molto a cuore ed è il motivo unico per cui reputo Millennium una delle mie opere preferite, passando sopra il fatto che possa essere a tratti assurdo e un po' troppo tirato per le lunghe.

Made in Sweden: la serie TV.
E qui, senza addentrarci troppo e dilungarci, possiamo prima presentare la serie e poi parlarne approfonditamente. Millennium è composta da 6 episodi, due per capitoli di 1 ora e mezza ciascuno e come elementi degni di nota sono: gli attori scelti per il ruolo dei protagonisti e l'inserimento nel cast di Paolo Roberto, vero pugile svedese di origini italiane inserito da Larsson nel romanzo e che nella serie interpreta proprio sé stesso. Il resto, fine. Davvero, non voglio proprio soffermarmi su ogni singolo episodio perché non ne uscirei più, ma non capisco come si faccia a considerare questa mini-serie un capolavoro. Approssimativo in una maniera assurda, recitazione pessima e dialoghi buttati un po' a caso. Chi segue il mio blog e in genere chi mi conosce, sa quanto non mi piaccia parlar male di qualcosa, ma davvero proprio non è riuscita a scendermi giù. Gli attori scelti per il ruolo di Mikael e Lisbeth, Mikael Nyqvist e Noomi Rapace riescono comunque a star su anche se non rispecchiano molto le loro controparti cartacee, soprattutto la Rapace che in abiti goth e truccata pesantemente è pressapoco ridicola e poco rispecchia la Lisbeth del romanzo. Nyqvist, invece, recita il suo ruolo in maniera abbastanza convincente, diciamo che "ce lo vedo bene nella parte", peccato che come ho già detto l'intera serie TV è molto approssimativa e i personaggi sono abbastanza anonimi e poco caratterizzati. Qui vale il solito discorso che ogni film tratto da romanzo non può essere fedele all'opera originale il ché ci sta eh, solo che essere fedeli a qualcosa di cartaceo è quasi improbabile. Diciamo che vedere la serie Millennium è per imparare a capire perché i romanzi si riadattano al massimo, con qualche evidente modifica e per forza di cose. Ciò che qui si cerca di fare è appunto riproporre esattamente ciò che accade nel romanzo... in sole tre ore. Il risultato è che La regina dei castelli di carta si manda avanti a fatica e distrugge sostanzialmente quanto fatto almeno discretamente nei primi due capitoli proprio perché, appunto, la gestione frettolosa dei primi due capitoli ha tenuto da parte alcuni elementi e ne ha tagliati il doppio nella terza parte. Terza parte che manda all'aria completamente la serie. Ma amen. Reputo la trilogia svedese un qualcosa di mediocre, sia in rapporto di comparazione con la trilogia letteraria che come sistema di valutazione globale. Una mini-serie che è proprio adatta alla TV, senza tante pretese, con un cast a tratti azzeccato e a tratti no.

David Fincher, Daniel Craig e Rooney Mara.
Ora, sarà anche vero che forse il mio parere è condizionato dal fatto che è stato Uomini che odiano le donne di Fincher ad avvicinarmi all'opera, ma se devo pensare in maniera obiettiva, non mi sarei mai avvicinato ai romanzi dopo aver visto la serie. Molto più fedele al romanzo, parlando più di ambientazioni che altro, degli attori decisamente più capaci e un ottimo regista. E qui credo proprio di non sapere cos'altro aggiungere. Daniel Craig è comunque azzeccato nella parte di Blomkovist, anche se perde quell'aria da bell'uomo che viene descritta nel romanzo, mentre Rooney Mara - e qui non me ne vogliano gli amanti della serie TV - è decisamente più azzeccata di Noomi Rapace. Di costituzione fisica, di aspetto, tutto. Rooney Mara riesce a trasformarsi completamente in Lisbeth Salander ed è molto più fedele la sua caratterizzazione nel film di Fincher che nella serie svedese. Certo, anche qui ci sono delle notevoli differenze rispetto al romanzo, ma se non altro, l'ambientazione, il messaggio del film in genere così come la rappresentazione di Lisbeth sono decisamente più riuscite. Un film il cui successo è meritatissimo ma che purtroppo non costituirà una trilogia a causa di divergenze creative, nonostante gli studi cinematografici abbiano speso una notevole cifra per finanziare il progetto.


Millennium, Vol. 1: Uomini che odiano le donne di Runberg & Homs.
Sopravvalutato o meno, Millennium ha comunque ricevuto un notevole successo, tale da dedicargli anche un fumetto. Quello di Runberg e Homs è francese, ed è stato pubblicato nel 2013 ma purtroppo in Italia è arrivata solo la prima parte, con un futuro incerto sugli altri due romanzi. Per quanto riguarda quest'opera, c'è ben poco da dire: dei disegni molto belli, una cura dei dettagli sia a livello grafico che di disegno veramente eccezionali e una storia che si regge, tiene fede all'opera originale e riesce anche ad inserire nuovi elementi, come la comparsa della sorella di Lisbeth che nei libri non c'è ma la si nomina solamente, che... beh, a me è piaciuta parecchio. Un'aggiunta che non stona perché nella sua interezza è un fumetto che veramente è ben fatto. Certo, i tratti possono sembrare un po' troppo caricaturali e forse c'è ben troppo colore, in quella che dovrebbe essere un'opera più cupa, ma in linea di massima funziona alla grande. Un fumetto di cui consiglio vivamente la lettura, se si è amati il libro, questo primo volume non delude le aspettative. Sottolineo, "se avete letto il libro", in quanto, per quanto sia bello, resta parecchio riassuntivo.

I fumetti della Vertigo, di Denise Mina.
Di questo ne parlai già tempo fa, esattamente qui. Ma se nella precedente recensione mi sono soffermato sul primo romanzo, diviso occasionalmente in due parti, oggi parlerò dell'opera completa. Come già detto nel precedente post, The Girl with the Dragon Tattoo si salva solamente per le copertine di Lee Bermejo e per i disegni in generale. Denise Mina, che comunque si è fatta notare in passato scrivendo alcune storie per Hellblazer, non riesce molto bene a trasporre il romanzo, sebbene abbia addirittura ben due volumi per farlo. Oltre a una pesante censura riguardante lo stupro della quale non trovo spiegazioni, la figura di Lisbeth qui è veramente estremizzata, ma non nel senso favorevole alla figura originaria del romanzo, ma in maniera stravolta. Il personaggio di Lisbeth, qui, viene fin troppo americanizzato; sì donna forte e autorevole ma niente lato fragile, niente umanizzazione. Onde evitare di ripetermi, ricopio qui quanto scritto nella recensione di qualche mese fa.
Se nel libro Lisbeth viene messa in risalto per il suo modo di fare taciturno e per il suo evidente problema di autismo, Denise Mina ha deciso che Lisbeth deve essere un personaggio autonomo e non convenzionale. In poche parole, prende il personaggio unico di Lisbeth e lo trasforma in un anti-eroe quasi conformista, con spiccate doti sociali e una psicologia indipendente che, levati, non ha bisogno di niente e di nessuno.
Il discorso, tuttavia, si discosta di parecchio nel secondo volume, The Girl who Played with Fire dove stranamente niente viene stravolto e in un unico volume si riesce a raccontare per filo e per segno tutti gli avvenimenti del romanzo (che in questo caso è, appunto La ragazza che giocava con il fuoco). Stesso discorso vale per la terza parte, The Girl who Kicked the Hornet's Nest, il quale riesce ad essere estremamente fedele all'opera originaria, anche se moltissime parti sono velocizzate e ridotte al minimo e alcuni passaggi vengono messi da parte o in altri casi addirittura semplificati.


In linea di massima, le trasposizioni della Vertigo ottengono dei pareri contrastanti. Con Lee Bermejo alle copertine e Leonardo Manco e Andrea Mutti ai disegni (rispettivamente, il primo per le parti di Lisbeth e il secondo di Blomkovist), l'opera dovrebbe avere come punto di forza il lato artistico, vale a dire i disegni e il discorso regge alla perfezione se prendiamo in esame le due parti de The Girl with the Dragon Tattoo. Le altre due parti, invece, subiscono un calo enorme. The Girl with the Dragon Tattoo ha una marcia in più rispetto ai suoi successori, e se The Girl who Played with Fire presenta una trasposizione più fedele con dei disegni inferiori - ma non poco curati, in The Girl who Kicked the Hornet's Nest il discorso va al rovescio, sì alla trasposizione fedele ma disegni poco elaborati, un'impaginazione poco fantasiosa, mancanza di quelle splash-page che in The Girl with the Dragon Tattoo vede il proprio punto di forza, insomma brutto da guardare, un fumetto decisamente mediocre. A questo andiamo ad aggiungerci che la storia ha ben poca fluidità, troppi dialoghi e troppe cose poco approfondite - ma ci sta, se valutiamo che La regina dei castelli di carta son ben 800 pagine di romanzo e il fumetto tenta di riassumere il tutto in poco più di 200. Il tutto sarebbe stato facilmente gestibile se ogni romanzo fosse stato diviso in due parti, ma è innegabile che nella trilogia Millennium è proprio Uomini che odiano le donne ad aver avuto maggior successo commerciale, e di conseguenza è proprio questa l'opera di maggior rilievo ma soprattutto qualità in tutta la trilogia - stravolgimento del personaggio di Lisbeth a parte che, ribadisco, a me non è piaciuto, ma credo che siano gusti, dopo tutto.

Conclusioni.
Ed eccoci qua. Una lunga recensione per un'opera che ho amato così tanto da voler completare una collezione che - tanto per il gusto di ripetermi - ho apprezzato veramente parecchio per il suo messaggio anti-sessista attraverso l'utilizzo di due personaggi al di sopra di ogni preconcetto. Uno un giornalista economico medio-borghese, l'altro una ragazza disadattata dal look un po' troppo sopra le righe e vistoso, ma che insieme rappresentano due facce di una stessa medaglia atte a rompere ogni pregiudizio o concetto preconfezionato. Un'opera che, sopravvalutata o meno, ha certamente una sua identità, che ha meritato almeno in parte il successo che ha avuto. Ritengo sia un peccato non riuscire ad avere ancora in Italia gli altri volumi a fumetti di Runberg e Homs (e io, purtroppo, il francese non lo so!), ma pazienza. Ci rivedremo tra queste pagine se mai in futuro vedranno la luce. O vedrà la luce qualche altra opera derivante Millennium.

giovedì 17 settembre 2015


Avete mai visto un film così brutto da farvi incazzare?
Di solito getto le considerazioni personali direttamente alla fine, ma davvero proprio con questo film non ce la faccio. Scritto e diretto da Francesco Picone (ebbene sì, è un film italiano), Apocalisse Zero è il titolo italiano di Anger of the Dead, titolo che a parer mio non c'entra una beneamata mazza con ciò che si vede. Rabbia di chi, de che, perché? Risposte che proprio non si riusciranno mai ad ottenere, ma ad ogni modo io la premessa che è un film di merda l'ho detto, ora passo alla trama del film e poi comincerò con lo sfogo vero e proprio.

Il film inizia con la presentazione di colei che sarà la protagonista del film, Alice (interpretata da Roberta Sparta). Alice sorseggia il caffè sorridente mentre guarda un notiziario alla TV su delle rivolte in città, riceve poi una telefonata dal marito che le dice che sta succedendo qualcosa di strano e di non aprire a nessuno ma proprio in quel momento, guarda caso, uno zombie anzi no un infetto (anche se nel film si ostineranno a chiamarli zombie) entra in casa e sbrana la figlia, che avrà avuto 5 anni e apre già la porta di casa. Una volta fuggita via, si imbatte in Stephen (Marius Bizau) e all'improvviso si passa a 4 mesi dopo dove ci viene mostrata una prigioniera (Désirée Giorgetti) che viene ripetutamente stuprata e usata come cavia da laboratorio. Da qui, la trama si incentrerà sulla fuga della prigioniera dal cattivo di turno - così cattivo che uccide le bambine a caso - Rooker (Aaron Stielstra) accompagnato da un tipo ribattezzato Hulk che ammazza le persone dicendo "Hulk spacca" (ebbene sì), e sul viaggio di Alice e Stephen alla ricerca di una nave che dovrebbe salpare e condurre verso un'isola dove l'infezione non è arrivata. Quest'isola, ovviamente, non esiste, quindi muoiono tutti tranne la prigioniera perché lei era in qualche modo misterioso immune al contagio al tal punto che gli infetti manco la cagano di striscio.

Ora, da che parte devo iniziare per far capire quanto 'sto film è una cazzata immane? Dai dialoghi probabilmente scritti da un bambino di 8 anni? Ne è un esempio la battuta ad effetto che il cattivo rivolge alla protagonista quando sta per uccidere Stephen davanti ai suoi occhi "Alice, non sei più nel paese delle meraviglie", ovviamente rigirata a-là specchio riflesso anche al contrario quando Alice lo lascerà morire sbranato da uno zombie, roba che - va beh, il concetto della cosa è racchiusa in una scena di Ted.


I dialoghi sono proprio il dito nel culo (nella maniera sgradevole, s'intende) di tutto il film. Dichiarazioni d'amore che sembrano esser state scritte da un bambino di 5 anni, citazioni improbabili da parte del cattivo, persino anche incongruenti con la trama o così scontate da far gridare "e allora?!" ad alta voce nel bel mezzo del film. Ovviamente nemmeno cito la sceneggiatura, completamente buttata lì a cazzo di cane, senza uno spessore di fondo, senza un messaggio che sia chiaro, una sceneggiatura che ricalca tutti i luoghi comuni dei film di zombie ma fatti proprio male. Salti temporali a culo, infetti che corrono come se avessero del pepe al culo ma che quando si ritrovano davanti alla vittima si fermano e cominciano a ringhiare giusto il tempo (5-6 secondi) per farsi ammazzare, il tutto contornato da uno scenario a dir poco sviluppato male. Ci vogliono far credere che siano passati 4 mesi dall'epidemia, eppure le ambientazioni interne ci lasciano capire che, o son passati in realtà 4 decadi, oppure sono strutture mai utilizzate. Va bene l'apocalisse e il caos totale, ma boh. Che poi, parliamone, gli esterni sono quasi sempre boschi, strade deserte senza nemmeno un auto ribaltata o del caos, ospedali fuori da aree urbane... insomma, ci siamo capiti. Dal lato della sceneggiatura non si salva proprio N I E N T E, la prigioniera scappa con degli stivali (forse perché non volevano far del male all'attrice facendola correre sull'asfalto?) che chi glieli ha dati non si sa visto che veniva trattata come una cagna malnutrita. Il tutto sarebbe stato coerente se li avesse recuperati dentro la fabbrica di scarpe in cui si rifugia, ma lo sceneggiatore a questo non ci ha pensato. Eh, no.

La sceneggiatura, di base, potrebbe anche avere dei punti di forza.
Ma non ne ha. Ho cercato di guardare il tutto con un'ottica differente. Ho trovato il rapporto romantico tra i due protagonisti molto infantile e banale, una che ha visto la figlia morta sbranata e che aspetta un figlio dal marito (presumibilmente morto) 4 mesi dopo già scopa con uno sconosciuto e si dichiarano amore eterno, tanto che lei getta via, no aspè APPOGGIA la fede nuziale per strada, gettando così un ricordo, ha senso? Potrebbe avercelo, sì, se si possa guardare il tutto da un'ottica più cinica, un po' come accade nel fumetto di The Walking Dead, dove si creano coppie solo perché si ha paura di restare soli, ma se era questo l'intento di Picone non è riuscito affatto a trasmettere una cosa del genere, anzi ci si arriverebbe solo ad un'analisi più approfondita, cosa che alla fine ricordiamoci che non tutti gli spettatori fanno. Un elemento che invece ho riscontrato e che, dopo tutta 'sta merda a spruzzo è riuscito a farmi tirare un respiro di sollievo, è la visione che viene data - anche se in minima parte - a come sarebbe un mondo post-apocalittico per le donne, vale a dire un inferno forse peggio di quello degli zombie, dove queste vengono maltrattate e tenute solamente come sfogo sessuale. Ecco, questo elemento marcio ci sta, è un qualcosa ad effetto, che non trova riscontro in molte pellicole, anche se non basta soltanto una mezza scena iniziale e un finale amaro a risollevare la questione. Anche perché, insomma, stiamo parlando di una cosa di cui si accenna, ma poi il film è soltanto un susseguirsi di dialoghi scemi e situazioni indecenti che si discostano di parecchio da questo significato. D'altronde, la prigioniera dovrebbe star scappando proprio per via degli abusi, ma invece viene deciso che questa è lì imprigionata da nonsisachì perché stan cercando di studiare il suo caso per creare una cura. Forse. Chi lo sa. Fatto sta che non era assolutamente necessario, ha rovinato forse l'unico elemento che poteva alzare un po' più i toni. E invece, eh, e invece HULK SPACCA.

Leggendo qua e là, dopo aver visionato il film, ho letto recensioni di chi ha voluto salvarne il lato tecnico, precisamente il lavoro registico. Ma io, personalmente, mi trovo completamente in disaccordo. Credo che molta credibilità sia stata persa proprio per alcune sequenze di montaggio, fatte male, che non sono nemmeno riuscite a sistemare quei buchi palesi di sceneggiatura, quando poi certe riprese sono completamente inutili! Ad inizio film, c'è una sorta di inquadratura nascosta, come di quelle che si usano per far capire che c'è qualcuno che sta spiando la protagonista - e ovviamente non c'è -, più in là durante una sequenza di fuga, invece, ci si sofferma per uno o due secondi su di un insetto appoggiato su di una foglia, cosa che mi ha lasciato anche abbastanza perplesso. Insomma, la regia secondo me fa schifo, un punto a favore delle riprese e della fotografia, ma credo che qui sfioriamo proprio le basi. Devo anche parlare del trucco usato per gli infetti? Devo proprio?

Nah.
In definitiva.
Eh. Che altro devo aggiungere?
Ne ho visti di film brutti, eh. Ne ho viste a decine, ma veramente brutti brutti, brutti fatti apposta e brutti involontari, ma poche volte sono arrivato a dire che un film è così brutto da meritare d'essere bruciato. Son del parere che il brutto va bene, se fatto con passione e se c'è un minimo di preparazione o di conoscenza a cosa si va incontro - o almeno se c'è un tentativo di dare una personalità ad un film che, anche se poi è brutto, ha delle particolarità che, fai per retroscena deliranti o perché ci sono scene degne di esser ricordate, ne resta un buon ricordo perché ha lasciato dentro di sé qualcosa. 'Sta rabbia dei morti, che non si sa perché fossero incazzati, proprio non m'ha lasciato niente. Non m'ha lasciato nemmeno un buon senso di disgusto. È un film scemo, ha dei dialoghi scemi, un doppiaggio schifoso e non è che si salvi poi molto la recitazione, una sceneggiatura piena di buchi, oh sostanzialmente... è un film vuoto! Così brutto che non l'ho votato nemmeno su IMDB o qualsivoglia sito di cinema. Nemmeno mezza stellina merita.

Consigliato a chi ama i cattivi che fumano la pipa.

lunedì 7 settembre 2015



E oggi parlerò di un film a dir poco brillante.
Esattamente, brillante è il termine che utilizzerò perché, a mio parere ci sono modi e modi di far ridere la gente e la maniera brillante è quando si riesce a creare un umorismo sottile, surreale ma allo stesso tempo accurato e ben adattato ad un contesto specifico. Insomma, quando qualcosa riesca a far ridere senza forzare chi vi è davanti. E What We Do in the Shadows è proprio uno di quei film che adopera questa mia idea di umorismo sottile e genuino. Produzione neozelandese realizzata nel 2014 con sceneggiatura e regia curate da Taika Waititi e Jemaine Clement, What We Do in the Shadows è una commedia con elementi horror girata sullo stile dei mockumentary e ci racconta una curiosa introspettiva sulla vita privata di quattro vampiri, interpretati dai due registi e da Jonathan Brugh, nei ruoli rispettivamente di Viago, Vladislav e Deacon.

Il film ha inizio con la classica scena del risveglio del vampiro dalla bara, con una mimica facciale esilarante di Taika Waititi, per poi spostarci alle interviste tanto per farci capire che una troupe sta realizzando un documentario sulla vita dei vampiri. Dopo averci presentato ognuno dei personaggi, ci si sofferma su uno screzio tra i quattro coinquilini... a riguardo della pulizia della casa e su chi debba pulire i piatti. Giusto per darci una presentazione sui toni che il film vuole mantenere, riuscendoci alla perfezione. Ovviamente, il tutto viene girato come se fosse un finto documentario, quindi via di interviste e riprese che fanno molto reality show seguendo la vita notturna dei quattro vampiri, conoscendo le loro storie e il loro tenore di vita, introducendoci a poco a poco sulla loro struttura sociale e su come questi facciano a procurarsi il cibo, ovvero portandosi a casa degli umani a caso e ucciderli in maniere poco ortodosse. Trattando quindi il fenomeno dei vampiri in maniera del tutto naturale, il film si mantiene su un tono surreale ed esilarante, tenendo fede alla costruzione letteraria (e non) sui vampiri giocando spesso e volentieri su questi elementi in maniera del tutto intelligente. Come per esempio, i quattro si vogliono dirigere in un luogo affollato per far sì di trovare potenziali vittime, ma non possono entrare nei locali se non invitati. Portandoci avanti con il film, poi, si avrà un intero filone narrativo - molto semplice ma funzionale - da seguire capace di strappare continue risate e a incollare allo schermo.

Eviterò di incappare in spoiler, per quanto abbia già comunque detto anche troppo a riguardo. Ciò che rende What We Do in the Shadows un film spettacolare, non è solo la presenza della già citata ironia brillante, ma soprattutto della struttura narrativa che riesce a star su (cosa difficile, nei mockumentary) e l'eccezionale lato tecnico, ben curato a partire dal tipo di ripresa e dagli effetti speciali che, davvero, al giorno d'oggi siamo abituati a vedere effetti esagerati, ma qui sfioriamo nell'assurdo, qui riusciamo a vedere quanto veramente possano essere speciali gli effetti speciali se adoperati intelligentemente. A maggior ragione, in un contesto come quello di What We Do in the Shadows che, sì parla di vampiri e quindi ha l'elemento surreale, ma comunque vuole dare la sensazione di qualcosa di reale, che stia accadendo realmente e vedere due persone sospese a mezz'aria o che non si riflettono allo specchio in quel contesto, beh... è un qualcosa che non si può descrivere, in quanto è proprio a livello di sensazioni, che il tutto viene percepito.

In definitiva, ritengo What We Do in the Shadows uno dei film più belli mai visti. Per quanto proprio non riesca ad apprezzare la figura del vampiro e tutto ciò che ne costituisce il mito, ritengo che sia un film che ogni appassionato non debba farsi scappare. Non solo per le ottime doti recitative degli attori e del lato tecnico eccellente, ma proprio per l'accuratezza dell'intera sceneggiatura! Un mockumentary che (finalmente) riesce a sembrare un vero documentario. Un'accuratezza che sono abbastanza sicuro non farà storcere il naso agli amanti dei vampiri. Un film imperdibile, da vedere. Invito tutti a farlo.



domenica 6 settembre 2015



Cassie Hack è tornata!
Dopo l'avventura al fianco di Ash Williams in Army of Darkness vs. Hack/Slash (e ricordiamo, ogni crossover di Hack/Slash è canonico!), l'intrepida cacciatrice di slasher ritorna in una nuova miniserie di sei volumi, Son of Samhain, scritta stavolta da Michael Moreci e Steve Seeley sui disegni di Emilio Laiso con le cover di Stefano Caselli, co-creatore della serie insieme a Tim Seeley il quale, è da notare, che abbandona per la prima volta le redini della serie. Hack/Slash: Son of Samhain è quindi un inizio tutto nuovo, una sorta di esperimento di rilancio, senza cancellare quanto ciò è stato fatto nella serie regolare. Serie regolare, però, che dopo un buon inizio si perse totalmente e creò un calderone caotico di vari elementi estranei alla saga, spezzando il tono mantenuto agli inizi per dar luce a qualcosa fin troppo differente da come fu proposto in principio. Con il crossover con Army of Darkness si è tentati di restituirci il buon sano vecchio fumetto divertente (ma non Vlad, sigh), questo nuovo rilancio sarà all'altezza? Scopriamolo.

Le vicende di Hack/Slash: Son of Samhain sono ambientate qualche anno dopo la conclusione della regolare e del crossover con Army of Darknes. Cassie oramai ha rotto la sua relazione con Georgia, dopo che i servizi sociali han portato via loro il figlio di Chris e Lisa, e per vivere ora fa la cacciatrice di taglie. Durante uno di questi lavori, s'imbatte in Delroy, un suo collega... ma collega del suo vecchio lavoro. Anche Delroy dà la caccia a creature demoniache, ma se Cassie era alle prese con gli slasher e la Black Lamp Society, lui è alle prese con qualcosa di più grosso, di un male antico tanto quanto l'uomo. I due, quindi, si uniscono insieme per salvare October, il figlio di Samhain, l'antagonista-barra-interesse amoroso di Cassie nella serie regolare, da una setta di mostri atta a risvegliare il Dio Mostro Attan-Soolu, bandito nelle viscere della Terra dagli uomini molti secoli prima. Una volta messo Ocky in salvo, i tre si uniscono per dar battaglia all'orda di mostri, guidata da Morinto, per sventare una minaccia che potrebbe porre fine per sempre all'umanità.





Son of Samhain, in linea generale, è una vera e propria ventata di aria fresca all'intera serie di Hack/Slash. Non dimenticandosi di quanto fatto da Tim Seeley, Moreci e Steve Seeley ci narrano di una Cassie Hack ancora incasinata, ma molto più matura e coscienziosa di sé stessa; superato il dolore per la perdita di Vlad (anche se con qualche ovvia cicatrice), Cassie decide di intraprendere una strada solitaria lasciandosi alle spalle Georgia proprio perché sa chi è e per cosa è nata. Come recita il detto, non puoi fuggire da ciò che sei, ed è la stessa cosa che recita Delroy il quale si presenta come un affascinante modo di comparazione tra due personaggi simili ma con esperienze differenti. Delroy, un personaggio che se pur all'apparenza volesse sembrare sostituire Ash vista la buona dinamica tra i due personaggi descritta nel crossover, si rivela essere ben altro che un personaggio frivolo e comico; non è nemmeno una spalla, semplicemente è un personaggio che ben si affianca a Cassie senza né soccombere al suo carisma restando anonimo, tanto meno cercando di affossarlo imponendolo con la forza. Tutt'altro. Non diverso il discorso è per October, il figlio di Samhain il quale appunto appare nel titolo della mini-serie stessa, con una funzione ben diversa da quella che si può presagire. Inoltre, da apprezzare tantissimo l'abilità con cui gli autori riescano a contrapporre le figure dei tre personaggi a passato, presente e futuro. Il primo è rappresentato da Ocky, figlio di un pazzo omicida - esattamente come Cassie; il futuro è rappresentato da Delroy, il quale potrebbe rappresentare un po' come si evolverà Cassandra. Fondamentale e rappresentativo a quanto appena detto, è proprio l'interazione tra i tre personaggi: Cassie dice a Ocky che non deve spaventarsi dall'essere figlio di un mostro e che può decidere lui stesso se esserlo a sua volta o fare del bene, mentre Delroy insegna a Cassie che per quanto possa provare a fuggire sarà inutile, lei è ciò che è e non deve dimenticarselo. E questo insegnamento lo si vede in atto quando Cassie propone a Ocky di fuggire via che in tutta risposta gli dice che ha deciso di fare del bene, facendo così in modo, e del tutto indirettamente, di ricordare a Cassie chi è lei.

Insomma, Son of Samhain non è solo una storia a sé stante. Rappresenta un nuovo punto di inizio, viene mostrata un'evoluzione del personaggio a partire dalle apparenze: abbandonati gli abiti succinti e appariscenti, Cassie ha ora un look più maturo ma pur sempre badass. C'è poi la crescita stessa del personaggio, non solo una prosecuzione di ciò che è sempre stato, anche se su questo ci sarebbe da ribattere. Il personaggio di Cassie Hack è cresciuto man mano con la sua storia, ed è per questo che a mio parere è uno dei meglio riusciti nel mondo dei fumetti. Oltre alla questione del personaggio, come già detto, rappresenta anche una ventata di aria fresca, viene allargato l'universo narrativo introducendo elementi come appunto l'introduzione del male antico Attan-Soolu che non risulta affatto scontato ma anzi, è una scelta coerente e ben pensata, che lascia nuovi spunti narrativi e getta le basi per una continuazione, come si evince anche nell'epilogo, lasciandoci presagire che il viaggio di Cassie è tutt'altro che finito.

Insomma, Hack/Slash: Son of Samhain è in definitiva un fumetto da non perdere, se si è amata la serie dagli inizi e la si è proseguita nonostante le scarse idee presentate dal momento in cui la serie approdò alla Image. Con la parentesi fuori luogo della lega dei supereroi, delle sette segrete operanti su isole altrettanto segrete, Tim Seeley ci diede un finale emotivamente sconvolgente con la morte di Vlad, e nell'opera successiva, Army of Darkness vs. Hack/Slash, fu l'occasione per mostrarci come Cassie ha reagito alla perdita di Vlad e, chiuso quel capitolo, Son of Samhain è riuscito a raccontarci ancora di più, riuscendo a far evolvere Cassie verso un'ulteriore maturità. Insomma, non è una trovata commerciale atta soltanto a vendere vista la popolarità del personaggio, in quanto è una storia che ha diversi elementi funzionanti: delle solide basi sul quale costruire narrazione, storia e personaggi, il riuscire a raccontare qualcosa di nuovo allargando gli orizzonti tenendo fede alla continuity nella sua totalità e il tutto contornato dalla capacità di mantenere alcuni elementi tipici della saga, come l'elemento splatter.


Son of Samhain è stato pubblicato dalla Image nel 2014 e vede già pubblicato il tutto in un unico volume. Io ho acquistato i sei numeri tramite comiXology e devo dire che è stata un'esperienza veramente interessante. Adoperando la funzione di ingrandimento sulle singole vignette, si ottiene un effetto visivo veramente niente male, creando delle emozioni in più nella lettura. Consigliata anche la lettura tramite App di comiXology.