martedì 29 novembre 2016



Quando uscì il quarto capitolo di Millennium, io avevo appena concluso la trilogia "originale" di Stieg Larsson e, nonostante il mio grande amore verso quei personaggi, ho deciso di rimandare la lettura di un anno. Come sicuramente è risaputo, Stieg Larsson è morto prima ancora di conoscere il successo delle sue opere letterarie e, alla luce del suo desiderio di scrivere ben 10 libri sulle vicende di Lisbeth e Mikael nonché delle sue 200 pagine già elaborate per un quarto capitolo, gli editori non ne hanno voluto sapere di lasciar perdere un capolavoro letterario di quella taratura che ha ispirato una serie infinita di trasposizioni cinematografiche e a fumetti, ecco che ben 11 anni dopo l'uscita de La regina dei castelli di carta, il quarto capitolo viene affidato a David Lagercrantz, giornalista e scrittore, ovviamente non basandosi sugli appunti di Larsson a causa dell'opposizione dei familiari sullo sfruttamento dei suoi diritti, ma presentando un soggetto totalmente inedito. Quello che non uccide, quindi, diventa il quarto capitolo della fortunata saga di Millennium. Il peso dell'eredità è stato quindi pesante e se ne è stato all'altezza o meno, lo andremo a scoprire assieme.

Innanzitutto, la trama di questo nuovo capitolo si presenta abbastanza differente rispetto a quanto siamo stati abituati da Larsson che, almeno nelle sue prime opere, si è voluto dedicare maggiormente all'economia svedese e ai casi di violenza sulle donne mentre Lagercrantz decide di approfondire il lato "virtuale" del personaggio di Lisbeth, mettendo radici appunto su spionaggio industriale e, in linea parallela, la violenza domestica. Lo scenario si apre in maniera semplice: un noto sviluppatore informatico, Frans Balder, che ha ideato un sofisticatissimo programma di intelligenza artificiale, viene ucciso misteriosamente, l'unico testimone è il suo figlio autistico, August. Nel frattempo, Mikael Blomkvist è in difficoltà: la rivista Millennium gli sta scivolando via dalle mani e oramai, vecchio e sorpassato, ha perso il tocco; Lisbeth Salander, invece, riesce a intrufolarsi nel sistema informatico dell'NSA creando non poco scompiglio. Questi eventi, nella buona tradizione di Millennium, si uniscono facilmente come tessere di un puzzle più complesso e intrecciato e vede come comprimari molte vecchie conoscenze dei capitoli precedenti (SPOILER) e vede la prima apparizione di un personaggio più volte nominato, ossia Camilla la gemella di Lisbeth!.

Il tutto, come se ci fosse il bisogno di precisarlo, non è Stieg Larsson.
Il lavoro di scrittura è palesemente differente e, per quanto lo scrittore a tratti cerchi se non di imitarlo, almeno omaggiarlo, si sente proprio che son due penne diverse a scriverlo. Ovviamente, direste voi. La scrittura è da un lato molto scorrevole e dall'altro, di contro, poco curata nei dettagli, alcune volte sembra addirittura approssimativa, soprattutto nella descrizione dei personaggi. Personaggi che, ahimè, non hanno il benché minimo appeal che avevano in precedenza. Non voglio assolutamente farne un dramma, è ovvio che Larsson conosceva meglio i suoi personaggi e Lagercrantz ha cercato di dar loro gli stessi connotati. Riuscendoci sì, non senza però spezzare la loro anima. L'anima, un'altra cosa che si è persa nella stesura del romanzo. Larsson riusciva ad inserire anche tre sottotrame, all'interno della storia e ognuna di esse erano appassionanti e riuscivano a tenere sulle spine, cosa che Lagercrantz non è riuscito a compiere. Eppure, le sue sottotrame si collegavano alla storia principale. Forse sarò stato anche io ad essermi perso dei passaggi, ma ho trovato alcuni ragionamenti adottati molto approssimativi e i collegamenti ad essi molto lasciati al caso, senza un briciolo di collegamenti logici e una psicologia pressappoco inesistente. Vorrei spendere qualche parola positiva alla trama, che tutto sommato risulta interessante anche se un po' banale e tirata avanti a fatica, ma se non altro riesce ad avere quei momenti di tensione. Ma la narrazione, comunque, ha parecchi momenti bassi. Lagercrantz fa continui passaggi da un personaggio ad altro, alcune volte anche facendo salti temporali con il semplice scopo di mostrarci un punto di vista differente e altre, invece, per bloccare la tensione sul più bello salvo poi riprenderlo in seguito e non è del tutto una tecnica mal riuscita, a tratti funziona e in alcuni punti l'ho trovato anche simpatico. Peccato però che se ne abusi così tanto che questa scelta diventi quasi meccanica, robotica, risultando soltanto ripetitiva. Infine, ci sarebbero alcuni punti sulla trama e sui personaggi su cui vorrei soffermarmi ma se non avete ancora letto il libro, saltate direttamente alle conclusioni.

[INIZIO SPOILER]
Innanzitutto, ho trovato diversi buchi nella narrazione tanto quanto sono le approssimazioni. Il finale, soprattutto, mi ha lasciato completamente spiazzato. Parti come "Lisbeth fece visita a Roger e lo spaventò, poi andò al suo appartamento" sono soltanto gli apici, ma in realtà ce ne sono un'infinità, come l'apparizione della sorella di Lisbeth avvenuta repentinamente e presentata da Holger Palmgren in maniera del tutto casuale, soltanto perchè Mikael ha avvertito una strana sensazione in sua presenza? Oppure, Ed the Ned che si ritrova a Stoccolma senza che ci venga introdotto quel passaggio fondamentale che, anziché essere approfondito (appunto, come introduzione) ci viene spiegato in maniera sommaria e potrei ancora andare avanti. Tutto sommato, l'idea di approfondire l'origine del nickname di Lisbeth, Wasp, è stata anche carina anche se troppo una strizzata d'occhio ai nerd... però, sul serio. Una sorella così indispettita da volersi inimicare la gemella sfruttando la sua fissazione per i fumetti Marvel? Andiamo, non ha neanche senso e non è in linea col personaggio costruito dallo stesso Lagercrantz, la spiegazione del "odiava così tanto Lisbeth da interessarsi a cosa le piaceva e poi distruggergliela" non regge neanche poi così tanto. Che poi, soffermiamoci sul personaggio di Camilla. È vero che molti fan della trilogia si son sempre chiesti chi fosse Camilla, quale gioco avrebbe giocato in futuro, perché il suo personaggio era lì e sicuramente Larsson l'avrebbe tirata fuori, prima o poi, ed è anche doveroso ammettere che introdurla come nemesi di Lisbeth ci può anche stare. Non un'idea geniale o innovativa, ma ci può stare. Ritengo anche che sia stata una scelta coraggiosa quanto azzardata, decidere di ripescarla in quel modo, e se fosse stata giocata differentemente sarebbe stato interessante, ma secondo me Lagercrantz ha osato troppo e quel suo colpo di genio si è bruciato in un istante. Non solo per come è stata introdotta (lo spiegone di Palmgren era totalmente inadatto, in quel contesto) ma anche come figura. Camilla è appunto il personaggio su cui tutti coloro che hanno letto la trilogia Millennium ha fantasticato, buttarla in mezzo al romanzo in questa maniera così repentina e veloce, ha soltanto spezzato la magia. Certo, ha tentato di farla restare sul misterioso, non è stata sconfitta, ma oramai ha detto già chi sia Camilla e che cosa faccia. Dov'è la magia? Dov'è quell'anima di Stieg Larsson che ci aveva ammaliato? Si sapeva, sarebbe rimasta nella tomba, ma avere tra le mani questa eredità significava parecchio, posso comprenderlo un errore di percorso, ma...
[FINE SPOLIER]

In conclusione.
Mi sentirei di bocciare completamente questo quarto capitolo. O meglio, "quarto". Purtroppo non sapremo mai cosa avesse intenzione di farne Larsson con Lisbeth, Mikael, Erika e Millennium, Quello che non uccide è ciò che si presenta in partenza: una trovata commerciale. Passi l'effetto nostalgia, i personaggi sono troppo approssimativi e nonostante gli sforzi di Lagercrantz, non hanno lo stesso spessore e, ad onor del vero, leggere Lisbeth Salander etichettata come punk fa soltanto incazzare. Preso come romanzo a sé stante, se ne salva ugualmente poco. Troppo approssimativo su determinati punti e non c'è psicologia. Non c'è assolutamente nulla, l'autore affronta, come detto in partenza, anche la violenza domestica ma, se ci fosse stato Larsson, l'avremmo sentito l'odio e lo schifo verso un padre che prende a calci il proprio figlio. Qui no. Non c'è niente.

Non è il quarto capitolo di Millennium.
Potreste leggerlo per togliervi lo sfizio, magari vi può piacere.
Ma, ovviamente, non è Larsson.

venerdì 4 novembre 2016


Il bar del paese era frequentato da anni dalla solita gente. Per lo più uomini dai 45 anni a salire, persino qualche persona anziana, qualche uomo rimasto vedovo o qualcuno che semplicemente staccava dalla lunga giornata di lavoro per godersi una birra in compagnia, magari guardando insieme una partita di calcio alla TV. Era il bar di Antonio, l’unico luogo di ritrovo rimasto su quel paesino in collina. Chiunque entrasse da quella porta era riconoscibile. Aiden, però, non era solito frequentarlo. Aveva 25 anni e frequentare un bar pieno di gente col doppio della sua età non gli andava molto a genio. Innanzitutto perché non riusciva a legare con la loro mentalità bigotta, poi non amava neanche il calcio ergo non avrebbe neanche trovato un argomento in comune. Aveva frequentato un istituto d’arte, tempo addietro, e l’arte era ciò che amava; oltre a dipingere, si dilettava a realizzare sculture con ogni materiale a sua disposizione, ma per quest’ultima non ne trovava mai il tempo. Aiden fece ritorno al paesino a 22 anni, abbandonando l’Accademia d’Arte dopo che il padre fu colto da un infarto che gli rese impossibile la vita, andando ad abitare con lui nella sua piccola e umile casa su tra le colline. Suo padre era come lui, un artista, non di grande fama ma nell’ambiente era abbastanza conosciuto al punto da potersi permettere di costruire casa su suolo privato, isolato dal mondo. Era invero un uomo solitario, forse un po’ egoista anche se con una profondità d’animo non indifferente, qualità che fece innamorare la donna con cui ebbe quel figlio che avrebbe poi seguito le sue orme. Lei fu portata via dal cancro quando Aiden aveva 13 anni. Suo padre, scosso dalla perdita, si abbandonò nell’alcol. Aiden, sebbene suo padre non gli faceva mancare mai nulla, lo odiò per un po’ a causa del suo autolesionismo ma quando arrivò quell’infarto non potette tirarsi indietro, era sempre suo padre. Lo stesso uomo che, nonostante tutto, aveva fatto di tutto per lui, come vendere ogni sua opera per far sì che suo figlio potesse studiare e prendere la sua strada. Una scelta nobile ma fine a sé stessa, visti i risvolti, finendo col vedersi costretto a prendersi cura di lui dovendo rinunciare alla sua vita e ai suoi amici, giù in città. Al suo intero futuro, forse. Aiden, un aspirante artista, un ragazzo da una profonda sensibilità, si vide costretto ad abbandonare i suoi sogni e di lavorare per poter mantenere le cure del padre e le spese della casa.

Non era un mistero, per la gente del paese, che Aiden, “l’artista” come usavano chiamarlo in tono sbeffeggiativo, fosse un ragazzo poco sveglio, inadatto al lavoro. Aiden non sapeva fare niente, aveva solo le sue doti artistiche, ma lì erano sprecate e, per quanto lui volesse tornare in città, il padre non voleva abbandonare la sua dimora, fatta costruire con il sudore versato in gioventù. Suo figlio, anche se adirato, rispettava questa scelta. Allora sacrificò tutto per lui, tanto ormai per lui tutto smise di avere importanza. Trovò lavoro in una ditta di distribuzione di materiale promozionale: volantinaggio, in poche parole, che gli forniva uno stipendio abbastanza agevole per poter mantenere le spese di cura del padre, la sua pensione copriva il resto, lasciando pochi spiccioli alle spese futili. La vita tra padre e figlio era monotona, si parlavano appena oramai e Aiden oramai era stanco. Il paese non aveva nulla da offrirgli, i suoi coetanei erano fuggiti e quelli rimasti era gente già sposata, cresciuta con la mentalità che lui tanto ripudiava quindi neanche lontanamente si sarebbe permesso di frequentarli. Gli amici fatti in città avevano detto che sarebbero rimasti, ma oramai frequentavano l’ambiente artistico, un disgraziato che si prende cura di suo padre in una casa sperduta in montagna non era più loro interesse. Buffo come la gente si dimentichi degli altri, ma c’è anche da dire che Aiden non faceva mai nulla per tenersi strette le persone, nonostante il carisma derivante dal suo lato artistico, non riusciva a stringere legami affettivi, perciò restò solo.

Nel bar di Antonio, quella sera, Aiden provò a farci un salto dopo il lavoro. Aveva bisogno di staccare, di provare a vedere se poteva in qualche modo distrarsi legando anche superficialmente con quella gente… ma non riusciva. Parlavano di calcio tutto il tempo, lui non aveva la benché minima idea di come il Napoli dovesse schierare i suoi giocatori e neanche gli interessava. I primi 45 minuti li passò in silenzio, fissando la figlia di Antonio il proprietario del bar, che era l’unica sua coetanea rimasta single in quel paesino. Giulia era una bella ragazza ma con una pessima reputazione in paese a causa delle sue abitudini sessuali un po’ troppo immorali per la mentalità di quel paese. Suo padre la “proteggeva dagli uomini”, anche se anche lui stesso provava vergogna per lei e, dal canto suo, Giulia sapeva cosa faceva e non aveva bisogno di protezione. Tuttavia, aveva deciso che sua figlia, la peccatrice, non avrebbe fatto altro che lavorare al bar senza rivolgere parola ai clienti. Aiden la fissava. Non la giudicava per ciò che era, forse lui era anche peggio, nella sua breve esperienza in città frequentando cerchie di amicizie e locali, si era lasciato andare e aveva sperimentato diverse cose. Per lui, il sesso non era un problema, anzi, ma quella vita solitaria gli aveva fatto male, si rese conto che non provava altro che desiderio fisico per quella ragazza, allontanandolo da quella sua profonda interiorità che tanto si vantava di avere. Per questo si limitava a fissarla. La notte si toccava pensando a lei, salvo poi rinnegare il desiderio ad atto concluso. Si chiedeva del perché lo facesse, ma la risposta era chiara. Quella solitudine, quella sensazione di alienazione lo stava distruggendo. La solitudine si mischiava al desiderio carnale e le due cose, dentro di sé, andavano fortemente in contrasto. Quando finì il primo tempo della partita, Aiden smise di guardare Giulia, abbassando lo sguardo mentre attorno a lui c’era gente che ordinava da bere, discuteva delle azioni della partita, usciva fuori a fumare. I discorsi che facevano neanche gli interessavano, però ascoltò inevitabilmente l’uomo che gli si sedette vicino. Il panettiere del paese, per lo specifico. L’uomo parlava ad alta voce dicendo come, per far vincere il Napoli, avrebbero dovuto lanciare una sorta di incantesimo o qualcosa del genere. Quel dialetto stretto non lo aveva mai capito, ma il concetto era chiaro così come era chiaro che il barista, Antonio, gli rispose di recarsi dalla “vecchia strega”, una anziana signora che di tanto in tanto si vedeva in giro per il paese e che aveva fatto spostare la sua casetta in mezzo ai boschi per restare vicina alla natura e praticare la magia, suscitando l’ilarità e gli sfottò dei compaesani. Aiden, colto da una inspiegabile curiosità, chiese se appunto si trattasse della vecchia in questione e i due uomini, ridendo, glielo confermarono aggiungendo che avrebbe dovuto recarsi da lei, magari avrebbe trovato un po’ di spirito e smetterla di comportarsi come uno snob. Il panettiere aggiunse anche dell’altro, un’offesa personale riguardante suo padre riferendosi a lui come “l’artista” nello stesso modo offensivo con cui la gente faceva con lui, fortunatamente non ci badò anche se l’alcol gli aveva preso la testa abbastanza da renderlo più sincero con sé stesso, facendogli provare vergogna e frustrazione per la situazione in cui viveva. Aiden finì la sua birra d’un sorso, pagò e fece per andarsene non prima, però, d’aver scambiato un ultimo sguardo con Giulia. Richiuse la porta dietro di sé tornando in strada, mentre tutti si radunarono nuovamente davanti la TV per veder cominciato il secondo tempo.

Il sole si alzò e Aiden era già in piedi. L’orario di lavoro era dalle 6 alle 19 e quel giorno, come gli tutti gli altri, avrebbe dovuto spostarsi in un altro paesino e fare chilometri e chilometri a piedi e il solo pensiero lo affaticava, ma quando passò nella camera del padre per salutarlo e lasciargli le medicine che avrebbe dovuto prendere, tirò un respiro e si preparò ad affrontare la giornata. Si recò quindi alla sede, recuperò il “materiale promozionale” e, presi gli ordini in incarico, cominciò il suo lungo giro che si sarebbe fermato soltanto per un’ora, per il tempo della pausa pranzo. Pausa pranzo che, però, arrivò quando lui era in strada, adiacenti ai boschi. Quando incrociò uno svincolo che portava ad una piccola stradina, si ricordò della vecchia di cui si parlava il giorno prima. La “strega”, che dicevano avesse dei poteri magici. Spinto dalla pura curiosità, svoltò per la stradina e si fermò davanti la sua dimora. Una casa fatiscente che non si sarebbe neanche potuto dire se avesse mai visto giorni migliori. Trovò la vecchina di lato alla casa che raccoglieva ramoscelli, qualcosa di veramente strano ma ancora più strano fu che la vecchia lo salutò, dicendo che lo aspettava da tempo. Disse qualcosa su come finalmente la Dea avesse deciso di portarlo in questa direzione. Lo invitò a prendere da mangiare ma Aiden rifiutò, lei insistette e lui voltò le spalle. La vecchia, per fermarlo, si allontanò dalla porta di ingresso e tentò uno scatto in avanti ma scivolò dallo scalino e cadde in terra. A quel punto, il ragazzo, per pura educazione tornò sui suoi passi e l’aiutò a rialzarsi e nel farlo, la vecchia continuava con i suoi deliri. Gli disse che la Dea le aveva parlato dicendo che lo aveva toccato, che quella sera stessa sarebbe venuto da lui. Aiden ignorò le sue parole e la congedò. La vecchina rispose come se sapesse con certezza che lo avrebbe risentito ma Aiden non ci badò, per lui erano soltanto deliri di una vecchia, chissà perché poi si era recato lì. Lasciò il bosco, mangiò il suo pranzo a sacco e continuò il suo lavoro fino alle 19, tornando a casa in tempo per la cena non prima, però, aver accudito nelle piccole faccende il padre. Dopo cena, prese il computer, fece il login su Facebook e tentò di fare conversazione con alcuni suoi dei vecchi amici, ma non fecero altro che parlare dei loro progetti e provò solo nostalgia. Così come provò nostalgia nel vedere che si sarebbero organizzate mostre e concerti a cui avrebbe voluto partecipare, ma oramai anche se ce l’avesse fatta con i soldi, avrebbe dovuto affrontare viaggi, stanchezza e molto probabilmente si sarebbe ritrovato solo. Gli passò anche la voglia di guardare un film alla TV, lo sconforto gli prese al punto che cominciò a rigirare per casa nervosamente. Decise quindi di riprendere la sua attrezzatura artistica e riprendere a dipingere. Non sapeva bene cosa, ma avrebbe voluto farlo. La temperatura fuori era serena, non c’era umidità e non tirava un fil di vento, quindi decise che avrebbe anche potuto dipingere all’esterno con le sole luci del vialetto a illuminargli la tela. Tela che fissò per qualche istante, tentando di trovare una ispirazione. Ripensò alle parole della donna anziana, del fatto che l’aspettasse, della Dea. Così, lasciandosi guidare dall’istinto, cominciò a disegnare alla destra del foglio una figura femminile con indosso un lungo vestito seduta ad un tavolo. Aveva i capelli raccolti e uno sguardo amorevole, gli ispirava serenità. Decise che i suoi capelli sarebbero diventati biondi e il vestito bianco, sarebbe stata di carnagione chiara e un effetto di luce avrebbe avvolto la sua figura. Notò però che l’immagine aveva soltanto preso la parte destra allorché cominciò a pensare a cosa altro aggiungere allo scenario ma facilmente la sua mente cominciò a fantasticare su quella figura amorevole, su quella Dea. La immaginava dolce, sensibile, capace di farlo sentire felice anche solo con un sorriso. Fu un pensiero però che ripudiò alla svelta, come se stesse fuggendo via da certe sensazioni, era quasi sul punto di strappare via la tela ma non lo fece. In un modo del tutto istintivo, disegnò alla sinistra della “Dea” una immagine speculare, un’altra figura femminile nella stessa posa di quella precedente ma decisamente l’opposta. Disegnò Giulia, la ragazza del bar, la ragazza oggetto del suo desiderio più nascosto. Un’altra sensazione ripudiata, qualcosa che non voleva assolutamente sentire. Stavolta la voglia di strappare il disegno era ancora più forte, ma decise che concettualmente era un bel disegno, contrapporre del fuoco, attorno alla figura di Giulia e della luce bianca avvolgere la Dea creava un bell’effetto nella sua mente. Le due immagini speculari guardavano verso di lui, una con sguardo amorevole l’altro malizioso, entrambe erano sedute su di uno sgabello, il tavolo era chiaramente un bancone di legno da bar. Non dormì, quella notte. Finì il dipinto quando ormai spuntò il sole, sarebbe dovuto andare a lavoro con una totale stanchezza e lo fece. Portò il dipinto sul pianerottolo all’esterno della casa e riprese la sua routine giornaliera, rischiando più volte di addormentarsi al volante, quando prese l’auto per recarsi in un paesino a qualche chilometro dal suo. Prima di tornare a casa, passò a prendere le medicine per il padre, fece un po’ di spesa e tornò a casa a mangiare, anche se non ne aveva voglia. Non lavò i piatti, si mise subito a dormire, fortunatamente era sabato e di domenica avrebbe potuto dormire anche di più. Ma così non fu. Un gran fracasso lo svegliò al mattino, suo padre aveva avuto l’ennesimo malore. Non fu un infarto, fortunatamente, ma aveva preso una brutta caduta. Aiden lo portò in ospedale, dove gli dissero che avrebbe necessitato di almeno due giorni di riposo sotto sorveglianza, viste le condizioni del suo cuore. Aiden fu colto dall’ennesimo senso di frustrazione. Quelle responsabilità che non voleva avere, quelle decisioni che non avrebbe potuto prendere da solo, lo assillavano. Avrebbe voluto fuggire via, scappare da quella situazione. Decise che suo padre sarebbe potuto restare da solo in un letto d’ospedale, tanto avrebbe avuto chi se ne prendesse cura. Mise in moto l’auto e decise di andare via, tornare a casa forse, non sapeva esattamente dove volesse andare, stava solo scappando da lì. Giunto più o meno a metà strada, si ritrovò di nuovo nei pressi del bosco dove abitava la vecchia e cominciò a rallentare, passando davanti al sentiero per osservare la casetta da lontano. Vide la donna anziana seduta sulla veranda, non distingueva bene la figura ma chiaro era che fosse lei così come fu chiaro che gli fece un cenno con la mano come per salutarlo. Aiden accelerò e tornò a casa, perso tra i suoi pensieri, caricò il dipinto che aveva realizzato la notte scorsa e tornò dalla vecchia, stavolta parcheggiando l’auto nella stradina. La donna non si meravigliò della sua venuta, d’altronde se l’aspettava che sarebbe tornato. Aiden, senza neanche salutarla, chiese chi fosse la Dea di cui parlava e lei gli rispose che la Dea è la notte e il giorno, la Dea è colei che regna su ogni cosa. Gli spiegò come essa scegliesse pochi eletti per essere mariti o mogli e che lui, in qualche modo, era stato scelto. Gli chiese, infine, in che modo essa si fosse manifestata e Aiden tirò fuori il dipinto. La vecchia lo osservò con uno sguardo deluso, dicendo sottovoce “quindi è questo che vuoi”, portandolo con sé sulla veranda. Disse che la Dea forse avesse un progetto speciale, augurando a sé stessa e alla Dea che ne potesse valere la pena, congedando infine il ragazzo dandogli appuntamento tra due giorni. Aiden non le fece alcuna domanda, fece passare quei due giorni e, dopo aver riaccompagnato il padre a casa dall’ospedale, tornò da lei che gli consegnò una specie di fagotto che avvolgeva foglie secche e legnetti. La vecchia le proibì di aprirlo, gli disse di portarlo in un luogo sicuro e aspettare le prime luci dell’alba, che la Dea potesse accontentare la sua richiesta. Ovviamente, Aiden non sapeva minimamente di cosa stesse parlando e le chiese di essere più chiara e la vecchia acconsentì. Gli rivelò che la Dea si era manifestata a lui mostrandogli la sua dualità, fuoco e aria, corpo e spirito. Il fagotto che gli aveva dato sarebbe stato il luogo dove si sarebbe risvegliato come forma spirituale, separandolo dalla carne, rendendo le due parti libere l’uno dall’altra. Si raccomandò ulteriormente di metterlo al sicuro e aspettare l’alba cosa che Aiden fece. Lo poggiò nel capanno degli attrezzi adiacente alla sua casa mentre lui si recò nella sua stanza a riposare. Il giorno dopo si risvegliò nudo, avvolto da una piccola coperta, foglie e legnetti.

Aiden uscì dal capanno, dove vide un essere uguale in tutto e per tutto a sé stesso che gli porse dei vestiti per poi recarsi verso l’auto, come faceva egli stesso ogni giorno. Aiden era confuso, sebbene la vecchia il giorno prima gli aveva chiaramente spiegato che sarebbe cosa sarebbe accaduto. Si chiese se non fosse un fantasma, quindi la prima cosa che fece fu recarsi in casa dal padre e gli rivolse la parola. Rispose. Non era un fantasma, in più era tangibile, riusciva a toccare gli oggetti. Aiden corse per strada e fece diversi chilometri a piedi verso la casa della vecchia che incrociò intenta ad andare a fare la spesa in paese. Le chiese cosa stesse accadendo, chi fosse e come funzionasse questa magia. La vecchia sorrise, lo invitò ad accompagnarla alla fermata dell’autobus e gli spiegò come non si trattasse di magia, ma di intervento divino. Rivelò che lei non fosse altro che un tramite, di venerare la Dea e di esserle servitrice. Disse al ragazzo che aveva appena avuto modo di assistere ad una rinascita; separando lo spirito dalla carne ora era libero di amare, di creare, senza alcun vincolo terreno, senza alcuna preoccupazione verso il mondo esterno. Disse che il suo corpo lo avrebbe servito, avrebbe fatto tutto ciò che ritenesse opportuno per garantire la felicità dello spirito, ma che fosse ugualmente un individuo a sé, privo di amore, regole e morale. Gli suggerì di tenerlo sott’occhio, di vivere quella situazione non in senso unilaterale, che la Dea gli avesse offerto questo strano dono per un motivo che lei stessa non comprendeva. L’autobus arrivò, le porte si aprirono e la vecchia si accompagnò a fatica al suo interno, rivolgendosi al ragazzo per un’ultima volta ricordandogli che spirito e carne sono ormai separati e, per quanto fossero due entità autonome, l’una è dipendente dalle esigenze dell’altra. Aiden fece un cenno alla vecchia, mentre l’autobus richiuse le sue porte e ripartì. Restò fermo a pensare, realizzò che aveva corso per tutto quel tempo senza mostrare alcun segno di fatica, forse aveva ragione. Quella magia, o atto divino, funzionava realmente. Aiden notò come, al posto di fatica e stanchezza, sentiva soltanto gioia, amore e una serie infinita di emozioni che non riusciva a dargli un nome. Corse così ritornando a casa, colmo di felicità. Mentre il suo corpo svolgeva al posto suo ciò che aveva fatto da 2 anni a questa parte tutti i santi giorni.

Arrivato a casa, prese tela e pennelli, senza farsi sentire dal padre convinto che stesse al lavoro e si recò in un angolo solitario del giardino, lontano dalla visuale delle finestre per cominciare a dipingere. Dipinse tutto il giorno, fu incredulo di quanto fosse ispirato, di come riuscisse a toccare ogni angolo sensibile della sua anima per riuscire a creare opere ai suoi occhi meravigliose. Passò diversi giorni a farlo. Di sera si metteva sul pianerottolo, di giorno cominciò a spostarsi in angoli più remoti, lontano da casa e più vicino alla natura. Non sentiva necessità di mangiare o dormire, in lui c’erano soltanto emozioni, sensazioni accentuate che necessitava di esternare. In poche settimane, realizzò una enorme quantità di dipinti e sculture in legno, che realizzava lontano da casa, in creta e anche con elementi semplici quali carta e legnetti. Molte opere sicuramente non sarebbero state valutate valide, quindi decise di catalogarle e di portarle in città quando ne avrebbe avuto occasione. In quell’arco di tempo in cui dipingeva, poche volte si incontrò con il suo doppio e in ogni occasione lui appariva sempre più stanco e provato, ma lui non ci fece caso e le loro vite proseguivano parallelamente. Il suo corpo ogni giorno si recava al lavoro, comprava le medicine, faceva la spesa, poi passava ore nella sua camera, immobile, fino ad addormentarsi. A prendersi cura del padre restò lui, la sua “forma più pura”, perché così aveva deciso. Quella situazione così assurda sembrava funzionare per tutti, tranne che per il suo corpo che, al contrario di lui, ogni giorno era sempre più provato e ricolmo di tic nervosi e scatti di violenza che avvenivano in solitaria sul posto di lavoro.

Passò addirittura un mese. Aiden raccolse “la sua arte” e prese un bus per la città, prendendo i soldi messi da parte dalla sua forma corporea che nel frattempo si faceva ancora carico di tutte le sue responsabilità, come da accordi presi prima di partire. Arrivò in città, riprese contatti con alcuni suoi professori chiedendo se fosse possibile rivendere i suoi lavori. E questi accettarono, valutarono i suoi lavori positivamente e improvvisamente, quella cerchia di amici che quando lui si trasferì lo abbandonarono, tornarono da lui come se nulla fosse, come se fosse una rockstar. Aiden provava fastidio verso questa cosa così come provò una enorme sensazione di rabbia nei confronti di atteggiamenti falsi e adulatori. In quella forma, ogni sua emozione era accentuata ma ne riusciva a tenere il controllo e a non cedere in scatti d’ira. Affrontò la situazione con garbo, educazione e pacatezza mentre, in una casa sperduta in montagna, la sua controparte si svegliò in un impeto di ira e iniziò ad urlare. Aiden non poteva sapere che ogni qualvolta lui ignorasse un sentimento, il suo corpo ne risentisse. Fu così con la rabbia ma anche con altre emozioni come la tristezza. Aiden, sebbene riuscì a raggiungere quella libertà, si sentiva spesso solo, senza amore. Ma come un artista vive le sue emozioni sfruttandole in maniera creativa, un essere fatto solo di istinti e pressioni psicologiche non può far altro che chiudersi a riccio, in una camera buia, piangendo sonoramente.

Passarono altri due mesi. In quel lasso di tempo riuscì a vendere alcune sue opere, riuscì a dedicarsi alla scultura come a lui piaceva. Ricominciò a frequentare l’ambiente artistico, a conoscere gente nuova e interessante, ma nessuno che stimolasse la sua emotività. Fin quando conobbe Giulia, una stupenda ragazza dai capelli biondi e gli occhi chiari con la quale stabilì un rapporto d’interesse reciproco molto intenso. Cominciarono a frequentarsi, a passare tantissimo tempo insieme. Aiden cominciò a sentirsi felice di nuovo, trovò finalmente ciò che riusciva a donargli quella felicità che tanto ricercava. Riconobbe in Giulia quella Dea del suo dipinto e una sera, riaccompagnandola a casa, era più che intenzionato a dar voce i suoi sentimenti con un bacio. Quando i due si sfiorarono solo con le labbra, però, Aiden fu colto da un malore, una forte fitta al petto, come se gli mancasse il respiro, cosa strana visto che era da tanto tempo che non provava alcun tipo di fastidio fisico. Giulia si preoccupò, ma Aiden riuscì a riprendersi e tornò a casa. Pensò tutta la notte a cosa potesse essere accaduto, ma non trovò risposta, l’unica che trovò era che l’evento era senz’altro collegata a quella sorta di magia. Decise di tornare a casa da suo padre e ritornare dalla vecchia per avere risposte ma prima voleva essere chiaro con Giulia e passò un’intera serata con lei travolto da emozioni contrastanti che non riusciva bene a distinguere, non comprendeva cosa stesse accadendo: lo avrebbe saputo, se avesse avuto un corpo. Sapeva che aveva a che fare col desiderio di avere qualcosa di carnale con la ragazza con cui stava, motivo in più per tornare a casa per ottenere risposte. Il giorno dopo prese l’autobus e una volta giunto in paese, si accorse di avere tutti gli sguardi puntati contro. Alcuni di loro si scambiavano sottovoce parole al veleno. Qualcosa era accaduto.

Tornò a casa e si recò dal padre, non trovò sé stesso in quanto era sicuramente al lavoro. Quando il padre lo vide questi non gli rivolse nemmeno la parola, in qualche modo ce l’aveva con lui. Le uniche parole che gli rivolse riguardavano il suo abbigliamento, che nel frattempo era cambiato totalmente da quando risiedeva in casa col padre. Capì che qualcosa non andava, decise quindi di tornare dalla vecchia, ma non la trovò. Aspettò fino a sera, ma non si fece viva quindi ritornò indietro dove incrociò sé stesso cogliendo l’opportunità di chiedergli spiegazioni. La reazione fu inaspettata, con voce lamentosa lo respinse via, in lacrime, intimandogli di lasciarlo stare, che era stanco di lui e di sentirsi in quel modo. Aiden restò con gli occhi spalancati, come poteva lui sentirsi in quel modo? Non avrebbe dovuto avere emozioni, così gli disse la vecchia. Tentò di prendere l’auto e scendere in paese, ma non aveva le chiavi e decise di arrivarci a piedi. Entrò nel bar di Antonio dove questo gli chiese di andare via, minacciandolo con una scopa. Fu la figlia, Giulia, a “salvarlo” e portarlo fuori da lì. Era chiaro che tra sé stesso e Giulia ci fosse stato qualcosa, e gliene diede conferma quando gli accarezzò le parti basse dicendogli sottovoce che aveva conosciuto in internet un tipo che avrebbe acconsentito a realizzare una certa fantasia, cosa che fece sobbalzare Aiden allontanando la ragazza in malo modo. Giulia restò perplessa, gli chiese se non fosse un altro dei suoi attacchi d’ira immotivati ma Aiden anziché risponderle chiese che fine avesse fatto la vecchia che viveva nella casetta nel bosco. Giulia gli rise in faccia e disse che dopo essere svenuta in piazza, un mese prima, fu portata in ospedale. Aiden chiese se poteva accompagnarlo ma la ragazza si rifiutò categoricamente accusandolo di essere strano. Aiden tornò quindi a casa e si recò in camera sua, incurante del padre ancora sveglio, dove trovò sé stesso nudo procurarsi dei tagli profondi sul petto. Lo fermò, preoccupato di cosa stesse facendo, lo coprì con una coperta e gli chiese le chiavi dell’auto. Le prese e chiuse sé stesso a chiave nella camera da letto ma si trovò davanti il padre che aveva capito ci fosse qualcosa che non andasse. I due ebbero un forte diverbio, con il padre che cominciò ad accusarlo di essere stufo dei suoi atteggiamenti irascibili, perversi e irrispettosi. Chiese cosa stesse accadendo in camera sua ma Aiden si rifiutò di farlo entrare, così che il padre lo scostò di forza e sfondò la porta. Quando trovò suo figlio avvolto in una coperta, pieno di graffi, la sua reazione fu mista: da un lato c’era l’ovvia incredulità, ma nasceva in lui anche una forte preoccupazione verso le condizioni del figlio. Lo shock, ad ogni modo, non gli fu in grado di razionalizzare e il cuore cedette facilmente. Aiden gridò contro sé stesso chiedendogli cosa avesse fatto per aver ridotto loro padre in quel modo, ma la sua rabbia, in lui controllata, esplose in uno scatto violento da parte del suo doppio che si avventò contro di lui, prendendolo a pugni urlandogli come fosse tutta colpa sua e delle sue emozioni. Aiden non provava dolore dai colpi del suo doppio, riuscendo quindi a liberarsi dalla sua presa con facilità, tentò quindi di farlo ragionare dicendo che avrebbero dovuto portare il loro padre in ospedale e che avrebbero parlato dopo. L’altro Aiden si rivestì e insieme caricarono il padre in auto e una volta giunto in ospedale, Aiden lasciò il padre ai medici che lo portarono via in barella, mentre chiese all’altro di restare in auto.

Nell’attesa che gli venissero date informazioni sulle condizioni del padre, Aiden chiese la stanza della vecchia, spacciandosi per il nipote. Anche se non era orario di visite, riuscì comunque a passare in quanto, a detta dell’infermiera, nessuno era venuto a trovarla in un mese e molto probabilmente le mancava poco da vivere. Entrò quindi nella sua camera, dove i lettini adiacenti erano vuoti, c’era solo lei, intubata. Aiden le chiese come si sentisse ma la vecchia ignorò la domanda e lo rimproverò di aver abbandonato le sue responsabilità in quel modo, di aver abbandonato sé stesso. Aiden, stanco dei messaggi criptici della vecchia, le chiese cosa fosse accaduto e la vecchia gli rivelò che nella sua nuova forma, ogni emozione vissuta fosse accentuata ma dal momento in cui essa venisse repressa, sia il fisico a risentirne. Ogni volta che avesse provato rabbia e l’avesse repressa, il suo corpo accumulava tensione, passando dai tic nervosi a dei veri e propri atti di violenza nei confronti degli altri. Gli parlò di come in tre mesi avesse causato alcune risse, di come se le fosse cercate appositamente per sfogare il suo istinto. La vecchia disse infine che lei era a conoscenza solo degli atti di violenza, ma nel paese si parlava di cose disdicevoli che lei neanche sapesse di cosa trattassero, fatto sta che ogni sua singola repressione ha causato una reazione al suo corpo. Era una sua responsabilità, la Dea voleva renderlo libero ma non si è liberi se non si è responsabili e coscienti di sé stesso. Aiden pensò a tutte le volte che aveva provato rabbia verso qualcuno o qualcosa, tutte le volte che avrebbe voluto piangere… emozioni che aveva vissuto ma non a pieno, in quanto mancanza di un corpo. Realizzò che in quel momento odiava sé stesso. Scambiò uno sguardo con la vecchia, non si parlarono. Aiden corse via, uscì dall’ospedale per recarsi all’auto, ma la trovò vuota e con i vetri rotti. In quel momento sperò soltanto che il suo desiderio di non morire si trasferisse alla sua controparte, passò al setaccio l’intera zona e finalmente ritrovò sé stesso. Seduto sul ciglio della strada, in lacrime.

Aiden si sedette accanto a lui, tentò di darsi conforto e per la prima volta notò come il suo corpo si fosse deteriorato dalla stanchezza e dallo stress. Notò che aveva ormai pochi capelli e il suono della sua voce era oramai spezzato, come vuota, senz’anima. Gli disse che tutto ciò che voleva era liberarsi di quelle emozioni, agire e sentirsi libero di essere ciò che era, rimarcando come le sue emozioni, la sua morale, lo avessero finito col distruggere. Aiden ascoltò in silenzio mentre il suo doppio continuò a parlare rivelando che aveva il desiderio di ucciderlo per essere finalmente libero ma che, ancora, le sue emozioni lo bloccassero. Aiden cominciò a provare pietà verso sé stesso e l’altro, in lacrime, cominciò ad elencare tutte le sue azioni compiute dal momento in cui si erano separati. Gli disse della gente picchiata, delle sue scappatelle con Giulia, di altre sue scappatelle con donne più grandi e persino con uomini. Gli disse dei soldi rubati dalla pensione e delle offese rivolte al padre rinfacciandogli di avergli rovinato la vita. Ancora, parlò di come avesse minacciato il suo datore di lavoro per fargli avere più soldi e lavorare poco. E la lista continuava, all’infinito, cose disdicevoli, cattiverie rivolte ad anziani e bambini nel paese, atti vandalici. L’odio di Aiden verso sé stesso cresceva a dismisura. Il suo doppio, che aveva nascosto un pezzo di vetro dell’auto, improvvisamente si tagliò la gola. “Dovresti esserci tu, al mio posto”, disse.

Il corpo si era accasciato a terra e tutt’attorno si formò una larga pozza di sangue. Aiden pensava che di lì a poco sarebbe sparito anche lui, morto assieme alla sua controparte. Ma così non fu, evidentemente la magia non funzionava in quel modo. Passarono diversi minuti, poi decise di lasciare lì il suo corpo e sparire. Le sue emozioni erano sempre accentuate ma non riusciva più a dar loro un nome. Pensò a suo padre, pensò alla Giulia che aveva lasciato in città. Aveva ormai importanza, chi dei due Aiden avesse conosciuto? Camminò tutta la notte, deciso a non curarsi più di quella vita che si stava lasciando alle spalle. Nella sua testa si riversarono mille domande, ma la più rumorosa riguardava quali intenzioni avesse avuto la Dea dal principio, se mai ci fosse stata una Dea. Nel frattempo, un medico uscì alla ricerca di Aiden per dirgli che a suo padre sarebbe rimasta una settimana o due, che le sue condizioni erano diventate inspiegabilmente critiche. Ma non trovò nessuno. Poco dopo, degli infermieri che uscivano dall’ambulanza, notarono un cadavere sul ciglio della strada pochi metri più avanti.

Si fece l’alba, Aiden ritrovò la stradina che conduceva alla casa della vecchia. Tornare a casa non sarebbe servito, quindi entrò nella casetta e riprese il dipinto che aveva consegnato alla vecchia mesi prima. Sperava che trovasse delle risposte ma restò deluso. L’unica cosa che realizzò fu l’incredibile somiglianza tra quella Dea da lui dipinta e la Giulia conosciuta in città. Forse c’era un disegno divino in tutto questo, si chiese. Continuò a guardarsi intorno, mentre nel frattempo la vecchia in ospedale giunse al suo ultimo battito. Aiden trovò un album di famiglia molto vecchio, probabilmente appartenuto ai genitori o ai nonni della presunta strega. Sfogliando le foto, si chiese se a quella sua forma spirituale, distaccata dal corpo, fosse data la possibilità di invecchiare o morire. In tal caso, il pensiero dell’immortalità lo spaventava ma aveva paura anche di togliersi la vita una seconda volta. Continuò a sfogliare l’album, poi notò qualcosa di strano che lo portò a sfogliare di nuovo l’album da capo. Era incredibile la somiglianza da lui riscontrata; le foto erano datate ma i lineamenti erano quelli della vecchia, ne era sicuro. Prese l’ultima foto dall’album, la data segnata era 15/12/1816.


Aiden posò l’album, prese poi una sedia e restò fermo a fissare il suo dipinto.